Che i giovani siano “senza futuro”, specialmente quelli italiani, è una valutazione talmente nota e abusata che ha smesso di fare notizia parecchio tempo fa. Quando l’attualità, per fugace stasi, non fornisce spunti particolari, ecco palesarsi sondaggi e statistiche su fughe di cervelli e giovani geniali che si reinventano in altre, lontane e floride nazioni. Smuove le coscienze, crea empatia, solleva quel tanto di allarme necessario a far capire che si sta sbagliando tutto o almeno qualcosa. E poi?

La cosiddetta “generazione Erasmus” è quella fatta di studenti che hanno avuto la possibilità – e la fortuna – di conoscere il mondo prima degli altri. Menti aperte, sveglie, fertili, che viaggiano in lungo e in largo, entrano in contatto con civiltà differenti e guadagnano precocemente l’abilità del confronto. Possono capire da dove vengono, cosa amano, chi sono, e tutto grazie al paragone con i pezzi di esistenza con cui riescono a imbattersi nel loro cammino. Carta d’identità alla mano, lavoretti qua e là e soldi di mamma e papà in tasca. Ai “giovani” – che chiamarli giovani sa tanto di vecchio – si apre l’opportunità di comprendere che esiste un altrove dove si respira un’aria diversa. Un’aria così paradossale da essere tanto leggera e tanto pesante allo stesso tempo.

E’ aria di adeguatezza.

Già, perché parlare di “giovani” – sempre loro – alla ricerca di una condizione migliore è solo un modo totalmente sbagliato e fuori luogo di indicare quello che invece è prima di tutto il desiderio di una vita adeguata alle proprie esigenze. Alle proprie abilità. Alle competenze.

L’aria è leggera perché ha il sapore di possibilità. Ed è infinitamente pesante perché si è lasciata dietro migliaia di cose importanti.

Un fenomeno nuovo? Certamente no. Il principio è lo stesso che muove i flussi migratori di ogni epoca. Dal nomadismo dei nonni Sapiens per la caccia e la raccolta di vegetali selvatici, alle migrazioni del secondo dopoguerra oltreoceano, a quelle ben più vicine dei popoli di Africa e Medio Oriente.

E come reagiscono al “non futuro” questi poeti maledetti della generazione Erasmus d’occidente?

La risposta a ogni domanda è “meglio non pensarci”.

La progettazione di un futuro ha ceduto il passo all’illusione di saper cogliere l’attimo nel presente. Il domani – se ci sarà – non è immaginato, ma solo consequenziale. Alla parola “pensione” si reagisce con una risata amara. Alla parola “famiglia” segue un secco “se capita”. Niente legami, perché si sa, “se poi all’improvviso devi andare via?”

La stabilità si baratta con l’avventura. La fugacità si giustifica con il desiderio di conoscere il mondo. Il paese d’origine, i contatti, le strade da percorre senza Google Maps vengono sostituite dal lavoro con cui tentare di arrivare alla fine del mese. Per chi lo trova.

I soldi messi da parte – quelli che ci sono, quando ci sono – non si investono.

A che serve regalarli in interessi a qualche banca? Meglio usarli per concedersi qualche piacere, qualche sfizio, qualche viaggio low-cost. Usarli per una qualunque consolazione a un lavoro che magari non è nemmeno quello per cui si è studiato per anni.

Chi è che vorrebbe pagare il mutuo di una casa che nessuno abiterà mai?

Perché si sa, se poi all’improvviso devi andare via?