Perché facciamo la guerra? ▷ Le risposte dello psichiatra

“La guerra è la madre di tutti i conflitti, accoglie il paradosso dell’amore e dell’odio, binomio inscindibile nella condotta umana su scala sociale.”
(S. Freud)

Non ce lo chiediamo filosoficamente, ma scientificamente: cosa spinge l’uomo a perpetuare la guerra, secolo dopo secolo?
È un interrogativo che attraversa la Storia e scuote le coscienze. Basta una scintilla – un confine, una parola, una paura – e la società si trasforma: il vicino diventa nemico, l’odio si organizza, la violenza esplode. Ma dietro le strategie geopolitiche e le ragioni economiche, cosa si agita davvero nella mente umana?

Secondo Freud

Secondo Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, la guerra non è solo un fenomeno sociale ma un’espressione delle pulsioni più profonde dell’essere umano. In un celebre carteggio con Einstein, Freud sostiene che l’aggressività è una componente essenziale della natura umana, una “pulsione di morte” che si affianca a quella di vita e che, nei momenti di crisi, può emergere con forza distruttiva. La guerra, dunque, sarebbe la manifestazione collettiva di conflitti interiori, il tentativo di scaricare all’esterno l’odio e la violenza che si agitano dentro di noi.
Freud, insieme a Melanie Klein, ha sottolineato come in tempo di guerra l’essere umano tenda a regredire a strutture psichiche primitive: il nemico diventa il depositario di tutte le pulsioni negative, una figura su cui proiettare paure e desideri di distruzione. In questa dinamica, la guerra offre un palcoscenico in cui fantasie distruttive, normalmente represse per garantire la convivenza sociale, vengono liberate e agite.
Le risposte degli psicologi più noti.

“Un’elaborazione paranoicale del lutto e della depressione”

Freud riteneva che l’aggressività fosse innata e ineliminabile: la guerra è la scena in cui si scaricano i conflitti interiori e le pulsioni distruttive, e la civiltà può solo tentare di arginare, mai sopprimere, questa tendenza. Franco Fornari ha interpretato la guerra come una “elaborazione paranoicale del lutto e della depressione”: l’essere umano, incapace di gestire la perdita e la paura della morte, proietta all’esterno un nemico da combattere, trasformando il dolore interno in violenza collettiva. Melanie Klein ha approfondito il concetto di regressione psichica, sostenendo che in guerra la mente umana torna a una posizione “schizoparanoide”, dove il nemico è vissuto come oggetto persecutorio e tutto ciò che è negativo viene proiettato su di lui. Jacques Lacan ha invece visto nella guerra anche l’espressione di un “godimento” perverso, una ripetizione coatta del bisogno di soddisfazione attraverso la distruzione dell’altro.

Ne abbiamo parlato a Lavori in Corso con lo psichiatra Sergio Favaretti.