C’è una “terra di mezzo” che è l’incontro tra Franco Scala, magistrato ricco di famiglia e Sasha Iannitto, un giovane reietto il cui tempo è scandito dall’andirivieni col carcere. E c’è un romanzo che ne scaturisce. 

Due chiacchiere con Alessandro Giordano, una vita in magistratura con vari incarichi, tra i quali quelli di Giudice minorile e di sorveglianza. Il suo libro, “Mio giudice”, affronta con originalità e con una buona dose di tratti autobiografici, un tema finora molto poco dibattuto, ossia quello del rapporto tra il giudicante e il giudicato, tra il giudizio e la colpa.

In che misura l’opera e la storia sono autobiografiche?

L’opera e la storia sono abbastanza autobiografiche perché traggono lo spunto proprio da quella “terra di mezzo” – come lei ha definito l’incontro tra i due protagonisti così diversi tra di loro – percorsa da individui reali. Quella del giudice, che proviene da una famiglia agiata ed è affetto da una grave forma di maculopatia è un po’ la storia che mi ha segnato e mi caratterizza, mentre la vicenda del giovane, che cresce in un mondo di deprivazioni, è vera, anche se è stata “arricchita” nella finzione con episodi tratti da vissuti di altri ristretti in carcere”.

Colpisce l’immagine di copertina, che è a suo modo un’introduzione: due porte di sbarre aperte, luce che filtra nel mezzo, due individui uno di fronte all’altro…

“Certo, ho pensato alla copertina come ad un universo chiuso dove la rottura tra il dentro e il fuori, tra la detenzione e la libertà, avviene per mezzo della luce che attraversa le sbarre divelte. All’interno di questo spazio si pongono, uno di fronte all’altro, due individui che, seppure diversi tra di loro (lo si nota dall’abito), sono raffigurati per mezzo di un medesimo colore, perché esiste una identità, una “univocità” che caratterizza ciascuno di noi quando si ha modo di conoscersi e di comprendersi”.

Quanti Sasha ha incontrato nel corso della sua vita in magistratura?

“Tanti. Di molti ricordo gli sguardi. Ed è anche per questo che ho deciso di scrivere un romanzo che desse voce a quelli di loro che non avevano la possibilità di esprimersi”.

Al netto della missione giudicante e della salvaguardia dell’obiettività del giudizio, come si gestiscono l’umanità, la partecipazione emotiva, l’empatia che possono “accendersi” nei confronti di un reo?

“Il lavoro che svolgo di Magistrato di Sorveglianza, sconosciuto ai più, presenta la peculiarità di dover coniugare due esigenze spesso contrapposte: quella di consentire al reo di intraprendere un percorso di affrancamento dalla devianza (la funzione rieducativa della pena) e quella della tutela della collettività, per prevenire il rischio di recidiva. Ma di fronte al giudice c’è un uomo. Io ho sempre cercato di osservare questo individuo pensando ai due presupposti “guida” che ho menzionato, basandomi sulle risultanze degli accertamenti espletati, ma guardando il condannato sempre con gli occhi di un uomo. Questo, a volte è “passato” tanto che, in certe occasioni, il reo ha affermato di aver compreso, e perfino accettato, il motivo del perché non era stata accolta una sua richiesta”.

Il libro ha anche una finalità sociale, vista la destinazione degli introiti derivanti dalle vendite…

“I proventi del libro sono integralmente destinati alla Comunità di Sant’Egidio che tanto si prodiga nell’assistenza ai bisognosi. E questo, anche nei confronti di coloro che escono dal carcere e non hanno nessuno che li aspetti o si trovano senza un lavoro: in molti casi la Comunità offre un sostegno proprio in questa prima fase per l’inserimento nella società”.

Paolo Marcacci