Senza fare i nomi, perché gli istituti sono sempre gli stessi, al sopraggiungere degli esami di maturità, anche quest’anno nonostante il regime di straordinarietà amministrativa e didattica, le troupe televisive dei vari telegiornali conoscono sempre e soltanto i soliti, elitari indirizzi: a Roma, per esempio, le trovi sistematicamente davanti ai portoni bronzei e lucidi dei licei del centro storico o del quartiere Prati; quelli dove gli studenti dei decenni passati rispondevano ai nomi di Venditti, De Gregori, Verdone, Palombelli, Veltroni… proseguiamo “vippando”? Non serve.

Studenti che si esprimono in un italiano forbito, inflessioni dialettali quasi impercettibili, professoresse fasciate e avvolte in Gucci o Christian Dior. E’ il periodo dell’anno in cui la scuola, vista in tv, è paragonabile a quei parenti che uno incontra soltanto alle cerimonie, quando si fanno vedere con il completo buono e le scarpe lucide, lavati e profumati.
Mai che si faccia una capatina dove le porte assemblate con pannelli di plastica dura sono fuoriuscite dai cardini; dove le persiane avvolgibili sono rimaste troppo chiuse o troppo aperte; dove buona parte delle sedie hanno ceduto e molti banchi traballano.

Questa sorta di pigrizia cronistica non può che sconfinare nell’ipocrisia, con una rappresentazione della scuola, dei suoi protagonisti e dei luoghi fisici dove – si spera – tornerà ad andare in scena che consta di rampolli della classe dirigente che in un modo o nell’altro raccoglieranno il testimone dai padri notabili; insegnanti che si rapportano con problematiche riguardanti essenzialmente la noia dei teenager benestanti e viziati; con edifici in stile liberty, buoni anche per girarci le fiction.

In questi mesi di emergenza causata dal COVID, è andata anche peggio, da questo punto di vista: ci hanno rappresentato (hanno avuto la pretesa di) l’interazione studenti – insegnanti attraverso reportage realizzati in scuole della provincia di Trento dove i professori interagivano dal laboratorio informatico che sembrava una sala della NASA o in istituti di qualche ridente cittadina emiliana dove ogni banco, in fine e autentico legno, aveva la sua tastiera e la sua cuffia con microfono e dove la “lavagna” digitale era più simile, per dimensioni, a uno degli schermi di una multisala cinematografica. Oppure sono entrati in case che potremmo definire economicamente e socialmente ariane, dove un ragazzino biondo (biondo nel dna, anche se moro all’esterno) manovrava con scioltezza i mouse dei suoi due PC personali, cuffiato come un ingegnere di pista di Hamilton al muretto della Mercedes.

Non bisognerebbe fare neppure troppi chilometri, in realtà, per accorgersi che l’orizzonte è un po’ più vasto e soprattutto variegato e interessante, a volte in modo doloroso. In alcuni istituti della periferia, nemmeno estrema, a nord ovest di Roma, lo si può scrutare dai buchi delle pareti dove un po’ di muratura è venuta meno, senza che nessuno abbia ancora trovato nemmeno un poco di stucco per chiuderli.

Paolo Marcacci


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