La scuola deve servire per livellare, il più possibile, le occasioni che mette a disposizione dei suoi fruitori, degli “utilizzatori finali“, come dicono quelli bravi, ossia i ragazzi, gli studenti. Deve, o dovrebbe, redistribuire le possibilità che la vita semina in maniera disomogenea sin dalla nascita. 

La scuola pubblica, ovviamente; quella privata faccia come vuole: di certo di quest’ultima si parla troppo, e con troppa attenzione, a giudizio di chi scrive il quale, peraltro, anni fa cominciò a insegnare proprio nella scuola privata, quindi l’ha conosciuta dall’interno. 

In questi giorni sembra essersi avviata a pieno regime la didattica on line, dopo qualche giorno di iniziale incertezza. Sulle varie piattaforme digitali si dispensano lezioni, si inviano schede o clip a tema, si somministrano esercizi. Si cerca di non interrompere quello che era il feedback quotidiano e soprattutto naturale con i ragazzi. Con tutti i ragazzi, proprio con tutti allo stesso modo? 

La realtà di questi giorni, sempre secondo l’esperienza di chi scrive, dice più no che sì. Perché ci sono i genitori che sin dal primo giorno di chiusura hanno iniziato a tartassare – diciamolo in modo civile – gli insegnanti chiedendo come sarebbero state le lezioni on line, quanto sarebbero durate, come sarebbero stati valutati i vari compiti ed esercizi e via dicendo (e rompendo). Un po’ di mamme (soprattutto) e papà si sono anche iscritti alle classi virtuali, al punto che uno, perlomeno i primi giorni, non riusciva bene a capire se stesse rispondendo allo studente o a mammà. Al tempo stesso, ma in questo caso senza invadenza e con decoroso imbarazzo, ci sono stati genitori che hanno fatto presente la soglia di difficoltà, oggettiva, che i loro figli avrebbero incontrato nell’approccio allo studio e alle classi virtuali. Un solo cellulare, magari non particolarmente performante dal punto di vista della memoria o della ricezione, in casa; un portatile vecchio e lento da dividere con più di un fratello; l’assenza del portatile o della linea fissa, quindi il solo utilizzo degli smartphone ma con una ricezione non ottimale; la casa di mamma dove non prende o quella di papà che non ha più il pc; l’impossibilità di scaricare tutti i file e via dicendo. Sono gli stessi, non pochi ma spesso comprensibilmente silenziosi, che magari debbono negare ai figli i soldi per il campo scuola, o quello per lo spettacolo teatrale prima delle vacanze natalizie e via dicendo. Sono gli stessi di quando la scuola ti urla nelle orecchie e ti lascia sulla cattedra le briciole delle merendine; soltanto che adesso sono più lontani, molto più lontani e ora che il banco è diventato piattaforma fanno più fatica a raggiungerlo. Sono gli stessi, ma è diventato ancora più difficile aiutarli, per assicurare loro la chance che gli è dovuta, visto che la vita li aveva già sistemati nelle retrovie della griglia di partenza. 

Quando tutto quello che stiamo vivendo sarà alle spalle, dovremmo tutto cogliere l’occasione per riconsiderare se, presi da tante questioni burocratiche o da tanti falsi problemi di facciata, non ci siamo lasciati sfuggire di mano un meccanismo che ha reso comunque classista e selettiva, ma non in base al merito, questa nostra scuola, pubblica per definizione ma non così popolare per le opportunità che (non) fornisce. 

Paolo Marcacci