Siamo genitori; siamo insegnanti; in molti casi siamo entrambe le cose. E siamo immersi, chi più chi meno, in una quotidianità familiare scandita dalle ore di didattica virtuale (non chiamiamole lezioni, per favore: una lezione è fatta di urla, di risate, di battute per alleggerire il clima, di stati d’animo individuali e collettivi da percepire ogni giorno) e da tutto il tempo restante: troppo, nonché percepito come dilatato, da ragazzini e ragazzi che a casa trascorrevano le ore dal tardo pomeriggio fino al dopocena e nemmeno sempre, se consideriamo il tempo trascorso fuori, dopo la scuola, nelle palestre, presso le scuole calcio, in ogni altro luogo dove coltivavano i loro interessi e le loro passioni extra scolastici.

Ci rendiamo conto di aver usato l’imperfetto, al posto del più appropriato passato prossimo, visto che parliamo di nemmeno due mesi fa. Ci è venuto spontaneo perché ci sembra un tempo lontanissimo, quello delle nostre giornate così compresse e incasinate, a volte al limite degli incastri possibili e immaginabili.

Oggi i nostri ragazzini si svegliano, indossano felpe e tute, ma quasi mai e jeans dentro i quali abitavano, letteralmente.

I più piccoli frignano un po’ ma poi sorridono quando si accende lo schermo del pc, attraverso il quale vedono le facce dei loro compagni di classe, ossia quelli con cui, in assoluto, trascorrevano (riecco l’imperfetto) più tempo in assoluto. Con i quali pranzavano a mensa, tirando molliche di pane o rovesciando bicchieri d’acqua tra rimproveri e risate fragorose.

I più grandi ciondolano, sbuffano, chattano come e più di prima, ma senza più darsi appuntamento per tradurre in pratica quella lite, o quel bacio. E per i bimbi il genitore in questo periodo è il compagno di giochi obbligato che deve spasmodicamente riempire il vuoto degli smisurati tempi morti: chi è obbligato a far finta di essere contento e di divertirsi è sempre di più il bambino, non l’adulto che in apparenza è quello che si sacrifica. Gli adolescenti invece si trovano gomito a gomito con quei genitori ai quali, in questa fase della loro crescita, dovrebbero nascondere un sacco di cose, con i quali dovrebbero discutere conflittualmente di come è il mondo per loro e di come pretendono di interpretarlo.

Se il virus è un nemico invisibile, ma aggirabile adottando le giuste precauzioni, ce n’è un altro, silenzioso e impalpabile, che i nostri figli più di noi si trovano seduto accanto sin dai primi momenti delle loro giornate tutte uguali: è l’assenza. Assenza di amici, di coetanei con cui litigare o dei quali innamorarsi; di carta oleata di pizza bianca; di borsoni da calcio o da palestra di riempire in fretta e furia; di insegnanti o allenatori da ascoltare con attenzione e mandare di nascosto a quel paese; di caschi da posare sotto un banco e scritte furtive da lasciare sul muro; di ogni altra cosa che ci viene in mente e che rende insopportabile il vuoto dell’assenza perché lo colora con le immagino, ma non lo riempie con la realtà.

Immersi come siamo nella gestione delle loro e delle nostre giornate, non ci siamo posti fino a ora la domanda su quale sarà, e quanto salato, il costo emotivo che pagheranno. Perché vale per tutti, il discorso, certamente: per le incertezze lavorative degli adulti e per i tanti anziani ancora più relegati ai margini. Ma non abbiamo riflettuto, finora, forse perché abbiamo inconsciamente evitato, su tanti momenti di quotidianità, spensierata o esageratamente gravosa che sia, memorabile per ogni prima volta da vivere quando si cresce, che a loro è stata portata via. Che nessuno gli potrà restituire con la stessa naturalezza.

Saremo tutti più o meno diversi, quando finirà; loro però stanno crescendo, che abbiano sette, tredici o diciassette anni. Sono i meno colpevoli in assoluto, alla fine avranno pagato il prezzo più alto.

Paolo Marcacci


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