Ha scritto qualche giorno fa sulla sua bacheca di Facebook Antonella, una mia collega che insegna matematica, che il nostro “mestiere” (mi piace questo termine che rimarca la caratura artigianale) consiste anche e a volte soprattutto nell’intercettare sguardi, nel dispensare fazzoletti di carta per asciugare lacrimoni, nel raccogliere confidenze accorate. Lo ha scritto quando stava per essere ufficializzata la chiusura delle scuole, quindi la scorsa settimana, anche se oggi sembra che sia passato un mese.

Sapevo già che ciò che ha scritto è vero; non mi ero però mai soffermato a riflettere su “quanto” questo concetto sia vero; su quanta forza abbia questo rimarcare con parole semplici un aspetto fondamentale dell’essere insegnante: il contatto, la vicinanza, gli stessi metri quadri da condividere. Tutto ciò che oggi dobbiamo stare attenti a evitare, amara ironia del momento; questo già basterebbe a esemplificare l’anomalia di queste giornate, di queste ore dilatate e vuote come appartamenti dai quali qualcuno sia fuggito in fretta e furia. Aspettando il ritorno di tutti noi.

A proposito, ma ci pensate al prossimo, anzi al primo abbraccio che ci regalerà quel ritorno? Ci pensate al valore che gli daremo?

E oggi cosa stanno facendo gli insegnanti, come in tanti si chiedono? Innanzitutto non possono andare a scuola. Non “possono stare a casa”. Dobbiamo starci, come quasi tutti gli altri, a questo punto. E dobbiamo fare di tutto non lasciare andare alla deriva il lavoro dei mesi precedenti; dobbiamo dispensare schede, schemi, appunti virtuali. Ogni giorno, più volte al giorno anzi. Per proseguire il programma e rafforzare i concetti già veicolati, certo; ma soprattutto per inviare un messaggio ai “nostri” (il possessivo che ci viene più naturale in assoluto) ragazzi: non siete soli, in questo momento in cui tutto è sospeso e ancora non sappiamo quando tornerà, noi continuiamo a essere una classe, a parlare di concetti, a impararli, a verificare quanto e come siano stati capiti.

Ma stavolta non posso farlo intercettando sguardi, così come, almeno per quest’anno, nessuno potrà restituirmi gli istanti di silenzio assoluto, che si crea naturalmente, quando si legge un verso di Montale, o quando si sottolinea la genialità assoluta di un verso come “Trafitto da un raggio di sole” di Quasimodo. E anche in questo caso, se già sapevo quanto fossero preziosi certi istanti, oggi mi rendo conto del “come”, attraverso la mancanza. E la mancanza stavolta è reciproca, credeteci: lo è stata sin dall’inizio, sin dall’annuncio del provvedimento, come ho già raccontato durante una puntata di “Lavori in corso” da Luigia e Stefano. Perché sin dall’inizio i ragazzi si son sentiti disorientati, come tutti noi, perché tutti cominciavano a capire che si profilava un qualcosa mai vissuto in precedenza. Non ci sono state le grida e le esultanze che trovo siano naturali in occasione di un’ordinanza di chiusura per maltempo, per esempio, quando la sorte ti riserva un fine settimana allungato e, se ti va proprio bene, ti fa stare a casa anche lunedì. Al mio “dobbiamo organizzarci, perché non so quando ci rivedremo…” c’è stato disorientamento e basta. E la domanda, davvero innaturale in ogni altra situazione: “Sì prof, ma quando si torna?”

Anche oggi lavoreremo sulla piattaforma virtuale, anche oggi c’è del materiale da spedire e una messaggistica da riempire. L’ultima cosa che ho condiviso è stato uno spezzone del film “Le vite degli altri”, che avrei fatto vedere alla mia terza per far meglio capire ai ragazzi il clima della Guerra Fredda e il controllo che c’era in certi regimi polizieschi. Tra le cose che più mi mancano, il fatto di far conoscere ai ragazzi la realtà anche attraverso i capolavori del cinema.

E tra poco invio il primo test di letteratura, che i ragazzi dovranno svolgere entro domenica sera per poi inviarmelo nella casella dei messaggi predisposta dalla piattaforma. Inviarmelo, non consegnarlo alla cattedra, tra nuvole di gesso, i miei scarabocchi incomprensibili sul registro… “Prof, ma che c’è scritto?” Il rimbombo della manata sulla cattedra di cui sopra, per ottenere il massimo silenzio e la massima concentrazione.

Senza nessuno che tenti di chiacchierare pensando di non essere visto, o che chieda di andare in bagno anche soltanto per riempire la bottiglietta d’acqua.

“Prof, ma quando si torna?”

Paolo Marcacci


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