Forse non c’è modo migliore per darsi e farsi coraggio che cercare di darlo e di farne a te; a te che leggi, a te che mi sei vicino in qualche modo. A te che ascolti la radio, che è una forma di amicizia; che sei più importante e più affettuoso di certi parenti, anche se non abbiamo mai preso un caffè assieme.

Ripartiamo da qua: da quel caffè, quando sarà possibile tornare a stare stretti, accalcati a un bancone, protendendo a fatica il braccio verso le bustine bianche di zucchero raffinato, o marroni di zucchero grezzo. Come dovrà sembrarci, quando ricapiterà per la prima volta.

E la prima stretta di mano, il saluto a un amico con il mezzo abbraccio che per l’occasione diventerà intero, la fila davanti alla pizzeria perché non avevamo prenotato…

– Ma non credevo ci fosse bisogno…
– Ma è venerdì, cavolo! Ma che te lo dovevo dire?!

Normalità: persino un po’ noiosa, più che altro scontata. Come entrare al supermercato a passo spedito, senza nemmeno guardare per terra, senza riconoscere il vicino di casa che sta scrutando tra le cassette di frutta qualche decimetro più in là. Senza avere altro limite che non sia quello, a volte claustrofobico, decretato dalle lancette del nostro orologio.

Eccolo, il paradosso di questi giorni impensabili: ci è stato tolto quasi tutto, ma il tempo ci è stato restituito tutto assieme. Forse è questa la cosa che ci spaventa di più e non perché non siamo in grado di gestirlo, anzi; in quello siamo diventati troppo bravi ed è stata il più delle volte una fregatura. Ci spaventa averlo, forzatamente, a disposizione e doverci guardare allo specchio ammettendo che forse non era del tutto vero quello che ci siamo raccontati un milione di volte: se avessi tempo leggerei un libro a settimana; farei cinquanta piegamenti sulle braccia al giorno; mi metterei a cucinare tutti quei piatti che per la fretta non riesco mai a preparare…

Maledetto tempo, come disse “quel” numero Dieci.

Adesso che sembra soffocarci, ora che le lancette sembrano zavorrate da un paio d’incudini, forse è giunto il momento di riconsiderare quali fossero le vere priorità e quali le cose che invece il tempo ce lo hanno sottratto, anzi proprio fregato, senza darci in cambio la gioia che ci sembrava scontato ricevere.

Discorso vecchio? No, perché non siamo mai riusciti a cambiare il corso delle cose, durante la vita quotidiana. Ora che sono le cose a cambiare il corso della quotidianità, forse è la volta buona. Non perché siamo diventati improvvisamente migliori rispetto a quelli che eravamo ieri, ma perché siamo obbligati a provarci.

Un primo passo potrebbe essere quello di cominciare a riconoscere gli istanti, quelli da non lasciare scappar via, come se fossero tutti uguali.

In fila, prima di entrare scaglionati (e scoglionati, se permettete) a fare la spesa, vale la pena alzare il viso verso il sole già tiepido di queste giornate; il piacere di passeggiare, per quei tragitti concessi e col permesso in tasca, magari rammentando con imbarazzo, se non proprio con rimorso, tutte le volte che ci siamo lamentati per un paio di chilometri a piedi, o che abbiamo rimandato quell’ora di jogging che ci eravamo proposti di cominciare a praticare due o tre volte alla settimana.

E poi i particolari, quelli belli ma trascurati, come quei fiori delicati a cui non fai caso soltanto perché vengono fuori da soli, dove gli capita.

Come gli occhi delle ragazze, delle signore, che in questi giorni sembrano più grandi e più espressivi, sopra le mascherine che hanno interrotto, ma per poco, il sorriso.

Paolo Marcacci


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