La macchinetta del caffè, in uno dei corridoi. La ricordo con la ressa attorno, durante le due ricreazioni, soprattutto, ma anche al cambio dell’ora. Ci sono i prof che hanno la “chiavetta” ricaricabile e quelli come me che contano gli spicci. Perché è la prima cosa che mi colpisce? Perché non c’è la mia collega Antonella, con la quale avrò preso migliaia di caffè; non c’è nessun altro di quelli ai quali chiedere o prestare qualche decina di centesimi.

Ed è allora che comincio ad allargare lo sguardo verso tutti gli ambienti in ombra: l’androne, che mi sembra più vasto e più largo, con tutti i disegni e le tavole colorate che la mia collega di arte, Alida, ha fatto realizzare e affiggere alle pareti dai ragazzi. Il corridoio più lungo, quello con le porte delle aule e i bagni alla fine, visto così è solo un tunnel verso il nulla.

Nessuno da andare a stanare, nessun ragazzo che s’è imboscato durante il cambio dell’ora; questi metri quadri non hanno mai sentito l’eco, fino a ora: sono, o erano, concepiti apposta per farti sgolare e nonostante questo ascoltare con difficoltà.

E non c’è bisogno che Cristina, la mia collega di tecnologia, con la sua voce e il suo passo spedito faccia marciare i ragazzi che si attardano a raggiungere le aule, con le ultime briciole di pizzetta da consumare. E non ci sono nemmeno Renata, Arturo, Daniela, Michele, Chiara, Silvia, Francesco, Alessandra, Anna, Antonella di inglese, Cristina di matematica, Fabio, Giulia; non c’è Susanna che col pallone in mano e il fischietto al collo li porta giù in palestra. Non arriveranno alle due i prof di strumento, per i ragazzi delle sezioni musicali.

Guanti e mascherina, un saluto da lontano alle collaboratrici che mi aspettano al pianterreno, ero salito una decina di minuti prima: ognuno di noi, con dei turni prestabiliti e un quarto d’ora di tempo, ha avuto il “permesso” di tornare in classe per prendere il registro e il materiale rimasto negli armadietti l’ultimo giorno di scuola. Quando ho detto alla mia terza: “Ci vediamo tra qualche giorno

Entrare nell’aula e vedere le sedie capovolte sopra i banchi mi ha fatto pensare a un qualcosa di scheletrico, come lische di pesce abbandonate su un piatto. Sotto i banchi c’è ancora di tutto: i loro libri dimenticati, qualche quaderno, matite spuntate, gomme consumate.

E tutte le scritte alle pareti, compresi i disegni osceni trasformati in pupazzetti innocui. Quelle che avrebbero dovuto cancellare con la vernice; che ora mi fa piacere siano ancora lì: varrà la pena toglierle quando qualcun altro avrà la possibilità di lasciarne di nascosto di nuove.

Mi sbrigo, mi affretto in modo quasi innaturale. Ovviamente non trovo tutto quello che avevo in mente di recuperare e che sarebbe saltato fuori di nuovo un giorno dopo l’altro.
Impiego meno tempo rispetto al quarto d’ora che mi è concesso.

Me ne vado quasi di corsa. Oggi non devo aspettare nessuna campanella.

Paolo Marcacci