Definirlo semplicemente pieno, o anche esaurito, lo stadio “Amsicora” quel giorno non avrebbe reso l’idea. La verità è che era gonfio, come stesse per esplodere. Ed era, ancora, soltanto l’orgoglio custodito da un calcio d’inizio, il godimento di un primato mantenuto prima dell’ultima curva.

Un primato ghermito alla quinta giornata di campionato, all’inizio dell’autunno tribolato del 1969, con i lasciti del cosiddetto boom economico che stridevano con le tensioni sociali; un primato mai più lasciato.

Albertosi; Martiradonna, Mancin; Cera, Niccolai, Poli; Domenghini, Nené, Gori, Brugnera, Riva: così declamò la sua filastrocca felice Manlio Scopigno, lineamenti a metà tra un Totò giovane e Luis Bunuel, sguardo lucido sul calcio e sul mondo stemperato da un’ironia che non tutti capivano; ancora meno quelli che la meritavano, se è per questo.

Il sole già caldo dell’isola, il vento che ogni tanto quasi per dispetto tendeva le bandierine del calcio d’angolo, come sempre aveva fatto in precedenza, come avrebbe continuato a fare anche quando il Cagliari avrebbe cambiato casa.

Poi il racconto si eleva al presente storico delle cose eterne.

Un orecchio all’Olimpico, dove la Juventus avrebbe fatto di tutto per battere la Lazio, gli occhi sul movimento che si percepisce sul secondo palo, nell’area barese, quando parte il lancio dal settore destro della trequarti: si tuffa e un po’ si avvita su se stesso, per impattare la sfera che ingenera un fremito che coinvolge rete, cuore, polmoni e stomaco di chiunque non vorrebbe essere in altro posto che lì, GigiRiva, raddoppiando la erre per quelli di cui è figlio adottivo e forse più amato ancora di uno naturale, lasciandone una sola per il resto d’Italia che gli porta rispetto. Che non può che portargli rispetto. Come a tutti quelli, pochi, di cui nome e cognome si pronunciano come una parola sola: dopo di lui, sarebbero arrivati BrunoConti e PaoloRossi, Campioni del mondo per aver compiuto quel passo in più che a Riva negarono, in quell’estate da tutto o niente del 1970, Pelé e Rivelinho.

Raddoppia Gori, nel finale,con una conclusione secca e tesa sotto la traversa. Il fatto è che il sibilo della storia lo senti anche da un’isola. Il fatto è che un’isola è tale solo se la guardi dal mare, del resto. Perché la Juventus non solo non vince, ma addirittura soccombe a un gol di Ghio. E allora quel sibilo si tramuta nel fischio del Signor De Robbio di Torre Annunziata.

Non è semplicemente un boato, non sarà soltanto una festa: è il varco attraverso il quale un popolo da sempre orgoglioso conosce quello che sarà il motivo più dolce per ricordarsi in futuro del proprio orgoglio.

E forse il resto d’Italia può applaudire per l’ammirazione, ma capire del tutto non può: bianco come la spuma delle onde, verde come un entroterra di valori incontaminati, rosso come gli occhi di chi se li sta già asciugando, portato dal vento che spira dal mare, sul terreno di Cagliari è atterrato lo scudetto.

Paolo Marcacci


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