Sul caso nave Gregoretti e nave Diciotti mi sfugge per quale motivo il Parlamento dinanzi a due casi pressoché identici dovrebbe pronunciarsi in maniera diversa.

La prerogativa costituzionale che prevede la richiesta di autorizzazione al Parlamento per poter processare un ministro dovrebbe garantire l’equilibrio tra i poteri dello Stato.

Ossia evitare che un potere si sostituisca all’altro.

Giova precisare che un ministro nell’esercizio delle sue funzioni non è processabile.

Per cui occorre che la magistratura per poterlo condurre alla sbarra dimostri che lo stesso abbia commesso dei reati al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, oppure abbia agito contro gli interessi della nazione.

Prima della riforma della Costituzione avvenuta per il tramite della legge n. 1 del 1989 il ministro poteva essere messo in stato d’accusa soltanto dal parlamento in seduta comune e giudicato dalla Corte Costituzionale.

Oggi con l’avvento della predetta legge di revisione è invece la magistratura ordinaria deputata a giudicare i provvedimenti del ministro qualora venisse concessa l’autorizzazione a processarlo.

Permane invece la garanzia nella sua parte essenziale, ossia che il giudizio del Parlamento è insindacabile.

Mi permetto di svolgere qualche considerazione circa la validità della riforma che oggi affida al potere magistratuale una evidente supremazia sugli altri poteri.

Anche perché qualora i magistrati commettano dei reati, ovvero agiscano non nell’interesse pubblico, oppure contravvengano alla corretta applicazione delle norme non vengono giudicati dal Parlamento che pure quelle norme è deputato a scrivere ed approvare, ne tanto meno dal governo che pur nell’esercizio gestione del sistema giustizia è chiamato ad assumere provvedimenti.

Ma vengono giudicati dai loro colleghi.

Come è giusto che sia, sempre nel rispetto del medesimo principio dell’equilibrio tra i poteri dello stato.

Il rischio allora qual è?

È che l’azione di un ministro potrebbe essere intimidita o mitigata, se non arrestata dalla minaccia di un processo non davanti ad un organo di garanzia quale la corte costituzionale (ove le magistrature sebbene presenti rappresentano un terzo del consesso) ma dinanzi ad un altro potere dello stato che in questo caso, esercitando la sua funzione giudiziaria, potrebbe, qualora fosse motivata da ragioni ideologiche o persecutorie a vario titolo, sostituirsi al potere esecutivo (e legislativo qualora si tratti di ministri eletti anche in parlamento).

Non ci troveremmo quindi dinanzi ad un equilibrio tra i tre poteri dello stato, pilastro su cui si regge la nostra democrazia, ma dinanzi ad un unico potere che decide quali provvedimenti del governo siano “praticabili” o meno.

Vale la pena precisare che il governo in alcuni frangenti, nell’esercizio delle sue funzioni, potrebbe dover assumere provvedimenti estremi per ragioni di stato.

Faccio un esempio banale: decidere se trattare con i terroristi per il rilascio degli ostaggi o mantenere una linea di fermezza è una decisione di estrema responsabilità che se trattata alla stregua del codice penale, qualora ci scappi il morto, sia che si sia deciso in un modo che nell’altro potrebbe accademicamente prevedere (ad esempio in caso di omicidio o addirittura di strage) pene prossime o coincidenti con l’ergastolo per chi in ragione della responsabilità prevista dall’incarico ricoperto abbia dovuto prendere una decisione.

Per fortuna, come illustravo prima, la garanzia, nonostante la riforma, ha mantenuto in capo al Parlamento il crisma dell’insindacabilità delle decisioni assunte.

Pertanto se il Parlamento non concedesse l’autorizzazione a procedere processualmente nei confronti del ministro tale decisione non potrà essere in alcun modo appellata presso altro organo.

Ma quando è che perlopiù l’agire della magistratura si rivela odioso, e non in linea con le proprie funzioni?

Qualora si rinvenga un atteggiamento persecutorio.

Allora, per entrare nel merito della vicenda, in senso tecnico, al di là delle posizioni ideologiche, dei tornaconti politici o di fazione, ovvero delle semplici simpatie od antipatie, visto che il Parlamento, sia in giunta e che in assemblea, ha approfonditamente relazionato e discusso sull’argomento (si torna a ripetere che la materia del contendere è identica in entrambi casi) ed ha ravvisato, avendone piena ed insindacabile competenza, la legittimità dei provvedimenti del Ministro non concedendo l’autorizzazione a procedere, mi chiedo perché la magistratura si ostini a reiterare al Parlamento una richiesta sulla cui materia il parlamento si è già formalmente espresso ?

Soprattutto alla luce del fatto che non ci sono stati, al tempo, nella condotta di governo comportamenti distonici od avvisi contrari.

Ossia non si rinvengono tra gli atti ufficiali dei singoli membri dell’esecutivo manifestazioni di dissenso o di contrarietà, anzi in entrambi i casi la linea del governo è stata la medesima coerentemente con gli indirizzi programmatici al tempo condivisi dall’esecutivo.

Mi chiedo infine, se tale comportamento, non dell’ordine magistratuale chiaramente (a cui va sempre il mio massimo rispetto) ma dei giudici che si sono occupati della nave Gregoretti, non rappresenti un esempio quasi accademico di intento persecutorio?

La mia dissertazione prescinde dal soggetto investito dalla questione ossia dal senatore Salvini.

Anzi debbo dire che la sua uscita, in un pubblico comizio, riguardante le vicende giudiziarie dei genitori di un suo collega l’ho trovata davvero di pessimo gusto e puramente speculativa.

La regola vale per tutti.

Soltanto un Paese finito o fallito seleziona la propria classe dirigente con le manette e non con il rispetto dei programmi e dell’avversario politico.

Benedetto Croce sosteneva che il politico onesto fosse il politico capace. Sono d’accordo, ma aggiungerei che il politico, oltre ad essere capace dovrebbe aver rispetto per i propri colleghi e per i propri cittadini, ma soprattutto per se stesso potendo ogni mattina guardarsi allo specchio senza farsi ribrezzo.

Enrico Michetti


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