Lampeggia, nel freddo della Dacia Arena, il risultato roboante con cui una Roma in (scandalosa) inferiorità numerica ha regolato un’Udinese presentatasi già frastornata al fischio d’inizio, dopo la grandinata che a Bergamo ne ha abbozzato la fino a quella partita robusta carrozzeria. 

Lampeggiano ancora di più, se permettete, i meriti di Paulo Fonseca, leader sorridente e comunicativo, sempre disposto a illustrare le sue decisioni. Al di là della capacità di continuare a fare di necessità virtù, vista gamma delle scelte tuttora ridotta al lumicino, puntellando di partita in partita il quadro tattico, il tecnico portoghese sta avendo il merito di essere interlocutore ideale per ogni giocatore, cercando di suscitare in ogni componente della rosa la massima soglia di competitività e di adesione al progetto. Paradigma di questo discorso, Pastore: Fonseca lo ha trattato da giocatore nel momento in cui lo stesso Flaco, forse, cominciava a dubitare di essere tale. Ora l’argentino ha cominciato a ripagarlo, dimostrando che, ove supportato da condizione accettabile, ancora è in grado di individuare sentieri laddove gli altri vedono solo parastinchi. 

Poi ci sono i leader: Veretout ormai imprescindibile, perpetuo come il suo moto; Smalling ministro della difesa; Dzeko vieppiù rafforzato nella lideranza dal senso di sacrificio; Kolarov che traduce sguardi glaciali in trance agonistica. 

Parliamo dell’arbitraggio? Si deve, a maggior ragione perché la Roma è stata superiore anche a quello: Irrati ha falcidiato la Roma con una decisione per la quale abbiamo già speso l’aggettivo qualche riga più su; Okaka non può andar giù per quella spintarella, ingenua, di Fazio che gli è a fianco, nel frangente; inoltre, aspetto decisivo, l’attaccante dell’Udinese non è ancora nitidamente sulla palla. Non è chiara occasione da rete. Continua il disagio sul fronte arbitrale. C’è bisogno di un pronunciamento perentorio della società: non basta mostrarsi disgustati da un oceano di distanza. 

Paolo Marcacci


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