Assistita dai medici che le hanno somministrato una terapia palliativa contro il dolore, è entrata in coma. Il suo corpo, già debilitato, non ha retto: è morta quello stesso giorno.

Il padre Frans e la madre Lisette, dopo averla vista soffrire per anni, avevano accettato la sua decisione e, con il consenso dei medici che la seguivano, non l’hanno sottoposta all’alimentazione forzata come invece era avvenuto in passato.

Hanno solo fatto il possibile per evitarle ulteriori dolori fisici e l’hanno accompagnata nei suoi ultimi giorni di vita, in un letto d’ospedale montato nel soggiorno di casa… Ora che qualcuno mi spieghi qual è la differenza tra la procedura seguita per permettere a Noa di spegnersi e il suicidio assistito o l’eutanasia!

Alla luce dei dettagli emersi, si capisce perché la notizia della morte di Noa si sia diffusa con enorme velocità in tutto il mondo. E come ho scritto poco sopra, si capisce perché tutti i mezzi di informazione del mondo abbiano usato la parola eutanasia.

Sarebbe stato più corretto suicidio assistito. Ma qual è veramente la differenza tra i due termini? La violenza delle reazioni di chi ha gridato alla fake news mi lascia sconcertato.

Mi domando, quanto è diffusa la cultura della morte? Ritenere giustificata la fine di una ragazza di diciassette anni rientra in un distorto concetto di politicamente corretto?

In tutto questo voglio riconoscere il merito di Marco Cappato. A lui si sono rivolte oltre 700 persone per chiedere di essere accompagnate verso la fine. Persone affette da malattie terminali e profondamente invalidanti. Malattie incurabili.

Ebbene, Marco Cappato, ha detto a noi di lavori in corso che non considera la malattia mentale una malattia incurabile e che quindi la esclude da ogni discorso di eutanasia o suicidio assistito. Prego i Paladini della morte di prenderne atto. Prego per Noa!

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