La morte non può essere una soluzione. Non può essere accettata come unica via di uscita. Al di là del dibattito sul se sia eutanasia o volontario lasciarsi morire. La morte non è cura.

Si parlerà a lungo della storia di Noa e della sua scelta di rinunciare alla vita a soli 17 anni. È giusto? È sbagliato? Possibile che non ci fosse altro modo per superare la difficoltà?

Già si staranno preparando i salotti televisivi ad accogliere illustri psichiatri e magistrati per riempire il palinsesto di pomposi discorsi sul valore della vita. Quale messaggio diamo così ai ragazzi di oggi?

Eppure, sarebbe un errore – forse anche mancanza di rispetto nei confronti del dolore di una ragazza – limitare lo sguardo solo all’ultimo atto della scena. Nell’era di Netflix non possiamo trasformare questo racconto in una serie tv. Questa volta nessun autore, nessuno sceneggiatore, dietro la scelta del finale.

Come si può parlare solo della correttezza della cura senza parlare della malattia?

Proviamo quindi a discutere del senso di inadeguatezza cui oggi siamo sottoposti. Dei disagi, delle tensioni e delle ferite che si maturano all’interno. Proviamo ad allargare il discorso mettendo da parte il caso specifico di Noa. Facciamoci un’analisi di coscienza: parliamo di un mondo in cui troppo spesso la vita è diventata patologia

Non arriviamo neanche a parlare di quei paesi in cui stupri, violenze, omicidi, povertà e guerre sono all’ordine del giorno. Paesi abbastanza lontani da non essere un problema per noi. Il nostro “benessere” è il frutto dello sfruttamento di milioni di persone, ma noi non ce ne facciamo un problema. È la bellezza del capitalismo. Viviamo nell’illusione che quello che abbiamo non comporti conseguenze per nessuno. Anzi, ci sentiamo benefattori quando mandiamo un sms per finanziare una qualche causa in qualche paese dell’Africa, con buona pace del fatto che l’ultima t-shirt che abbiamo comprato a 3€ in qualche multinazionale sia stata il frutto dello sfruttamento di qualcun altro a migliaia di chilometri di distanza.

Ma non scomodiamo questi discorsi che potrebbero essere tacciati di andare fuori tema. 

Parliamo allora del patinato mondo occidentale in cui viviamo. Un mondo in cui il suicidio è sempre più utilizzato come soluzione per non essere schiacciati dalla realtà.  

Solo pochi mesi fa l’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità) ha rilasciato uno studio secondo cui sono in aumento le malattie mentali a livello mondiale, e in particolare sono preoccupanti i casi di depressione e di suicidi sempre più in giovane età. Un mondo di depressi, a prescindere dallo stato sociale ed economico. 

Secondo l’Oms i disturbi mentali potrebbero a breve superare quelli cardiovascolari, attualmente al primo posto. Il 50% di tutte le malattie mentali ha inizio versi i 14 anni, ma raramente vengono diagnosticate, molto più spesso sono sottovalutate. Un altro dato preoccupante emerso è che il 10% dei ragazzi di età compresa tra i 15 e i 29 anni manifesta forme depressive o ansiose. Sempre in questa fascia di età il suicidio ricopre la seconda causa di morte”.

Allora forse dovremmo interrogarci sulle cause di questa situazione. 

Partendo dal piccolo, dalle pressioni cui siamo continuamente sottoposti
Dai modelli consumistici che ci bombardano fin da bambini. Dalla scuola come primo incubatore di una mentalità che vede nella realizzazione economica lo scopo principale della vita. Dalle celebrità che pongono il proprio status come l’obiettivo finale da raggiungere. Dai Talent Show che diffondono sempre più la cultura del “fuori o dentro”, del vinci o perdi. Dai social che ci illudono di poter essere qualcuno semplicemente con una foto, che hanno trasformato l’ostentazione in normalità. Dal mondo professionale che ti impone di venderti – di essere spendibile – come un prodotto. Dalla cultura che non accetta l’errore, non accetta la mediocrità, non accetta la sconfitta.

Un mondo malato che ti porta sempre a sentirti inadatto, a pensare di non essere all’altezza di tutte le aspettative che ti vengono inseminate nel corso della vita.

Forse prima di parlare della erroneità della cura, dovremmo confessarci di aver costruito un mondo in cui è difficile essere sani.

Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto”. Pier Paolo Pasolini