Come sentire il rumore del triciclo lungo il corridoio dell’Overlook Hotel di “Shining”: così è stato l’inizio del primo tempo per un Milan arrendevole, distratto, preventivamente impaurito. Quando Dzeko ha messo fuori causa Tonali con un dribbling secco e stilisticamente impeccabile, prima di piazzare il rasoterra secco del raddoppio sul secondo palo, a Stefano Pioli devono essere apparse anche le due gemelline dallo sguardo fisso. Vestite di nerazzurro, ci mancherebbe.
Per sintesi estrema e spietata, nella prima frazione di gioco il più decente tra i rossoneri è stato Tatarusanu.

Nella ripresa, un Milan apparentemente più manovriero ha occupato con maggiore intensità la metà campo interista, ma al tempo stesso è andato a sbattere sistematicamente contro il muro delle linee ravvicinate di Barella, sempre sulla torretta di guardia, e compagni.

I cambi giusti, al giusto momento, quelli di Simone Inzaghi, per la fatica evidenziata dai titolari, in particolare lo stesso Barella e Dzeko.

Minuto 77, con Tomori che lascia la porta della cantina spalancata e Lautaro che si precipita a stappare il vin santo che riempie definitivamente il calice della Supercoppa: il Campione del Mondo mette palla a terra, focalizza il punto in cui Tatarusanu non potrebbe mai arrivare e apre con l’esterno una mezzaluna di parabola che fa lampeggiare tutte le lucine del flipper. Il terzo gol interista spegne l’orgoglio sugli occhi di tutto il Milan: chi è in campo, chi in panchina nascosto dentro un cappuccio e infine un comandante come Stefano Pioli che da troppe partite ormai sembra girare il timone a vuoto.

Per l’Inter arriva un’iniezione di autostima da reinvestire in ogni competizione; per il Milan il momento di un confronto tra tutti i suoi smarriti protagonisti, controfigure di quelli che otto mesi fa si laureavano Campioni d’Italia in un crescendo di convinzione.

Paolo Marcacci