L’Italia si ferma, ma non si fermano i ricordi. E proprio in questi giorni in cui il tempo sembra avere assunto nuove sfumature, perché non approfittarne per rivedere alcuni di quegli eventi che hanno cambiato la Storia? Abbiamo chiesto ai nostri opinionisti di parlarci dell’evento da rivedere assolutamente in questi giorni di quarantena. Quel momento leggendario, indelebile e tanto importante da aver in qualche modo cambiato per sempre le nostre vite… Ecco il consiglio di Paolo Marcacci.

Montecarlo, massima celebrazione mondana della Formula Uno; al tempo stesso, sua antitesi, per quelle che sono le caratteristiche del “tracciato”, ammesso che si possa definire tale quel dedalo di stradine, a tratti tortuose, che ogni anno vengono assemblate per dare vita alla più suggestiva e anomala prova del Campionato del mondo. Viene comunemente definita una “lotteria”, visto che l’esito di una gara così sui generis non può che essere condizionato da una serie di fattori riconducibili all’imponderabile: uscite di pista, collisioni, sofferenza dei motori ai bassi regimi, usura straordinaria delle gomme e forte sollecitazione delle componenti meccaniche.

Serve una buona dose di fortuna, insomma, per vincere nel Principato; oppure, in alternativa, servono doti di guida non comuni, come quelle che ormai indiscutibilmente vengono riconosciute a giudizio unanime a Gilles Villeneuve, alla vigilia del Mondiale del 1981. Con la medesima unanimità di giudizio, però, gli esperti ritengono che neppure il canadese possa avere alcuna chance di trionfare a Montecarlo con una vettura azionata da un motore turbo, come quello che la Ferrari adotta in quella stagione, inaugurando anche a Maranello l’era dei propulsori sovralimentati.

In realtà la scuderia modenese già nel 1980 aveva iniziato a convogliare i propri sforzi e la propria progettualità, Mauro Forghieri in testa, verso la creazione di un “cuore” turbocompresso che assicurasse più potenza, un numero maggiore di cavalli e di conseguenza un incremento delle velocità di punta rispetto ai tradizionali “aspirati” della fortunata ma ormai superata serie 312 T che al Cavallino aveva portato gloria e titoli mondiali. È, quella del 1980, anche l’ultima stagione in Formula Uno per Jody Scheckter, Campione del mondo in carica, leale amico di Gilles Villeneuve. “L’orso” – come lo chiamano nel Circus – venuto dal Sudafrica ha deciso di slacciare il casco: il mondo dei gran premi perde un fuoriclasse come pochi, un uomo ancora più raro.

Il Campionato mondiale del 1981 inizia con molte novità, forse troppe, in casa Ferrari.

Per sostituire Scheckter è stato scelto Didier Pironi, pilota veloce ed emergente, parigino elegante e di buona famiglia; uno che si presenta bene. Lo chiamano “Cicciobello”, per l’aria rassicurante e l’aspetto da figlio di papà. In pista la scuderia inaugura la serie delle vetture 126 C, “wing car” concepita per sfruttare in maniera ottimale i benefici dell’aerodinamica ai lati della scocca, dunque lo spazio concepito per il motore prevede un baricentro rialzato che però libera molto le “pance” della vettura, a vantaggio dello schiacciamento del veicolo al suolo. A una nuova frontiera della motoristica, però, la Ferrari abbina ancora un telaio tradizionale, per quanto irrobustito, in alluminio tubolare. Le scuderie britanniche sono all’avanguardia da questo punto di vista: Williams e Lotus costruiscono telai monoscocca in “Honeycomb”, con celle a nido d’ape; la McLaren guarda ancora più avanti, inaugurando l’era della fibra di carbonio.

Inevitabilmente, le Rosse di Villeneuve e Pironi pagano la sofferta compatibilità tra scocca e propulsore; le prime prove del campionato sono caratterizzate da ritiri dovuti a rotture dei semiassi e guasti del motore. In realtà non ci si doveva né poteva aspettare altro, visto che non si parla soltanto di un nuovo motore ma di un’innovazione che coinvolge la concezione del veicolo stesso e, particolare fondamentale in un’epoca in cui la guida, cioè il “manico” può fare ancora differenza, costringe il pilota a ridefinire, almeno parzialmente, il proprio stile di guida. Diversa la maniera il cui la macchina risponde nelle entrate in curva, diverso il suo modo di erogare potenza in accelerazione.

Sin dai primi, lunghissimi test invernali, Villeneuve si dedica con grande abnegazione alle prove del nuovo motore e a comprendere quanto e come il suo modo di condurre la monoposto può essere funzionale al turbo, e viceversa. Se c’è un pilota adatto, quello è Gilles Villeneuve: mentre gli altri, a cominciare dai francesi della Renault, il turbo lo hanno inevitabilmente sofferto, lui ha cominciato subito a interpretarlo, scendendo a patti con un cuore dai battiti più possenti, che quasi strappa il volante dalle mani ogni volta che si chiede ad esso una trasfusione di benzina e di potenza in più.

Il 31 maggio del 1981, sotto il sole già caldo della baia di Monaco, va in scena il sesto gran premio stagionale.

In casa Ferrari, dove Forghieri e un pugno di fidatissimi tecnici cercano di migliorare, a colpi di faticosi perfezionamenti e di progressivo irrobustimento del telaio, affidabilità e prestazioni delle Ferrari 126 C, non ci si fanno illusioni circa l’esito di una gara così anomala e particolarmente controindicata per il V6, che in quel pugno di tornanti soffre come la muscolatura di Hulk un attimo prima che la camicia finisca a brandelli. Ma Montecarlo, patria anche del gioco d’azzardo, è fatta per sorprendere, si sa: alla roulette delle prove, al sabato, esce il rosso 27; Gilles ottiene il secondo tempo, a soli 78 centesimi di secondo dalla velocissima Brabham BT49C di Nelson Piquet.

È tutto un fuori programma, il giorno della gara, a cominciare dalla partenza, ritardata di circa un’ora a causa di un incendio alle cucine dell’ hotel “Loews”: l’acqua usata per neutralizzare le fiamme ha inzuppato il tratto del tunnel.

Una parte del gotha della Formula Uno di tutte le epoche è schierata lungo quella linea di partenza: oltre a Villeneuve, ci sono il “poleman” Nelson Piquet, Alan Jones, Nigel Mansell, Jacques Laffite, Alain Prost, Carlos Reutmann, Mario Andretti, John Watson, Keke Rosberg, solo per citarne alcuni. Al via la Brabham del brasiliano, motorizzata Ford e sospettata di avere un “quid” – secondo alcuni, tra cui Reutmann, irregolare – di potenza in più nel suo particolare Cosworth DFV che portava la potenza oltre i 500 cavalli, contro i 480 standard, scatta subito in testa alla gara, tallonata dalla Ferrari di Villeneuve. Comincia abbastanza presto la serie dei contatti e dei ritiri: i primi due sono Andretti e De Cesaris sulle due Alfa Romeo, che vanno in collisione sulla salitella del “Massenet”, poi Mansell, tamponato da Reutmann.

Prima di metà gara Villeneuve viene sorpassato dalla Williams di Jones e, qualche giro dopo, dalla Arrows di Riccardo Patrese. Gilles sta tenendo una condotta di gara intelligente, riuscendo a domare tutti i cavalli del turbocompressore e aspettando che le stradine del Principato si facciano smaltiscano un po’ di traffico; viene accontentato più volte: si ritirano Patrese, Arnoux, De Angelis, poi Watson. Al giro 53 arriva il primo, vero colpo di scena: il capofila Piquet, imprendibile fino a quel momento, si trova ad affrontare il doppiaggio di Cheever e Tambay, in lotta fra loro; allargando troppo la traiettoria sull’esterno, alla curva del “Tabaccaio”, il brasiliano ( che a fine stagione si laureerà Campione del mondo) infrange le sue velleità di trionfo contro il guardrail.

Diviene primo Alan Jones, regolarissimo e veloce alla guida della Williams, tallonato da Villeneuve, ora di nuovo secondo. Comincia in quel momento un nuovo gran premio, animato dal vantaggio considerevole della Williams e dal ritmo di Villeneuve, indiavolato. Gilles, che ormai a Montecarlo ci vive con la famiglia da qualche tempo e le strade dalle quali si ricava il circuito le conosce anche da cittadino, comincia a essere sempre più a suo agio in un inseguimento difficile ma non impossibile: i fianchi della 126C, scossi dalle cambiate e dalle accelerazioni repentine, sono quelli di una irrequieta ballerina di rumba che lui tiene a bada esibendosi in un controsterzo virtuoso, dosando volante e acceleratore come un violinista farebbe con l’archetto e le corde. La Ferrari sbuca dai tornanti sempre dando l’impressione di poter svanire dalle inquadrature televisive; un piccolo gigante si aggrappa mani e piedi al suo motore, sussurrandogli nelle turbine l’intelligenza delle traiettorie, ostinandosi a guidare ciò che tende a sfuggire di continuo.

Al giro numero 67, il gran premio trattiene il fiato…

Alan Jones deve fare una sosta ai box, all’affidabile Williams urge un rabbocco di carburante, il pescaggio della benzina risulta compromesso. L’australiano riesce a ripartire mantenendo la prima posizione, solo che ora l’esercito dei secondi a difesa del suo primato si è assottigliato; Villeneuve è angoscia che ulula benzina, che incrina gli specchietti. Diminuiscono più velocemente i secondi di vantaggio di Jones che i giri che mancano al termine, su battistrada esausti si consuma il destino esile di una gara che alla fine di ogni tornante può stampare addosso a un muro la fine del sogno.

Ne mancano quattro, di passaggi sulla linea del traguardo, quando Gilles Villeneuve, proprio nel punto della bandiera a scacchi, inventa una manovra di pistoni e centimetri, cogliendo l’attimo laddove altri centrerebbero le barriere, prima dell’ingresso alla “Saint – Dévote”, con uno spunto eccezionale che sembra lasciare sul posto la Williams: in meno di un secondo Jones passa dal primo piano troppo ravvicinato di Villeneuve nei retrovisori alle volute di fumo denso e scuro, quasi bluastro, che escono dagli scarichi della Ferrari in fuga verso la vittoria.

Joanna si sporge dai box, per aspettare il passaggio di Gilles sul traguardo, negli ultimi metri di un’impresa: un canadese piccolo piccolo ha cavalcato il fulmine, trattenendo il respiro di una monoposto da 600 cavalli come quello di un equilibrista su un filo tra due grattacieli. Questo era ritenuto il coefficiente di difficoltà per il turbo a Montecarlo. È giusto che il dio delle corse abbia scelto lui per compiere il miracolo, è persino ovvio: quel motore non sarebbe sceso a patti con nessun altro pilota, in mezzo ai marciapiedi del Principato.

“Dai, ne abbiam vinte delle altre” dice Mauro Forghieri (in realtà felicissimo) ai meccanici che piangono e saltano per la gioia.

“Non come questa! Non come questa!” Risponde una voce rotta dalla commozione. Forse è quella del fedelissimo Paolo Scaramelli, il meccanico di Gilles. È davvero così.

Stravolto ed esausto, avvolto in una corona d’alloro gigantesca, un canadese nato sulle motoslitte ha appena aggiunto un capitolo alla storia dell’automobilismo.

Paolo Marcacci


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