I calciatori di qualche tempo fa avevano spalle come stampelle, toraci ossuti che ancora non esplodevano, sopra le gambe muscolose. Erano benestanti senza restare mai ricchi del tutto; in pochi diventavano milionari, quando facevano cose straordinarie, come prendere per il collo una Coppa del mondo

Erano figurine che spesso avevano i baffi, sguardi arcigni, sopracciglia folte. E qualcuna, fra le tante, ti veniva naturale metterla da parte, perché sapevi che l’avresti conservata. Per quale motivo? In nome di quella paradossale dignità che è uno dei sentimenti più nobili del calcio, ossia il fatto che il rispetto, raro, che provi per un calciatore che veste una maglia avversaria, sa essere a volte più intenso e in qualche caso assoluto rispetto a quello indotto, più naturale, che nutri nei confronti di un giocatore che indossa i tuoi colori.  

Gaetano Scirea vestiva la maglia più detestata, per tutti quelli che non sono juventini; è quasi come se non ci avessimo mai fatto caso, come se quelle strisce bianconere, all’epoca sottili nell’intreccio del cotone semplice, addosso a lui diventassero persino eleganti, nella gestualità semplice di un rinvio, guidato dal profilo affilato, dallo sguardo nitido, rimasto per sempre timido nello specchio di ogni telecamera. 

L’uomo si portava a spasso per il campo un esempio, che nel calciatore spiccava spesso per contrasto: il miracolo della dolcezza, quando si fa riconoscere in mezzo al clamore.

Ancora oggi, se vi va, chiedeteci, perché ci ostiniamo ad amare questo gioco maledetto che troppe volte si dimentica di essere tale: vi risponderemo che abbiamo visto con i nostri occhi uomini che gli hanno dato un senso che va oltre i risultati. Vi risponderemo che abbiamo avuto la fortuna di vedere giocatori come Gaetano Scirea, che hanno reso migliore il loro tempo; che anche se avessimo voluto, da avversari, fischiarli, il sibilo ci sarebbe rimasto tra i denti, attutito dal nostro rispetto

Paolo Marcacci


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