Almeno quattro o cinque giorni, nel corso della vita, essere Alex Zanardi, per dare senso a tutta un’esistenza.

E non perché si debba per forza vincere una medaglia d’oro, o più d’una, come fa lui, che ha colto l’ultimo alloro ieri ai Mondiali di paraciclismo di Emmen, in Olanda. Non è questo, il discorso, perché in quel senso ciò che fa Alex Zanardi può farlo solo Alex Zanardi, nessun altro. 

Dovremmo cercare di essere lui, almeno qualche volta, per assaporare la sensazione di fare ciò che la vita ci offre di poter fare con entusiasmo e sullo slancio di quell’entusiasmo accorgerci progressivamente che i traguardi che ci eravamo posti possono diventare, dopo che li abbiamo raggiunti, ponti verso altri traguardi, prima nemmeno lontanamente immaginati. 
La difficoltà di non scadere nella retorica, quando si parla di lui e della seconda vita che gli è toccata in sorte dopo il terrificante incidente occorsogli a Indianapolis, la si può aggirare solamente riferendo il discorso a noi stessi, alle volte in cui ci è toccato rinascere, a forza, da qualcosa di indesiderato, di imprevisto, di doloroso. 
Perché lo ammiriamo così tanto, fra l’altro con la rarissima unanimità che nel nostro paese è quasi innaturale?

Perché tutto ciò che compie di eccezionale, di straordinario, ce lo racconta con parole semplici (e con accento bolognese), di quelle che possiamo riferire a ognuno di noi, alle nostre vicende, a ciò di cui non ci crediamo capaci, di cui abbiamo paura, che non penseremmo mai di poter raggiungere.

Ecco perché, ogni volta che lo guardiamo gareggiare, non vediamo più l’uomo che ha perso l’uso delle gambe, ma quello che ha strattonato il destino con la forza delle braccia.

Paolo Marcacci


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