In un’intervista di alcuni anni fa, l’iconica Monica Vitti si interrogava su una questione che ancora oggi resta aperta: il destino delle ragazze, le aspettative che la società proietta su di loro sin dall’adolescenza.

“Perché – si chiedeva – a 15 anni bisogna dire a una ragazza che la cosa più importante è trovarsi un marito, costruire un focolare, essere mantenuta? Perché invece non si dice: trovati un lavoro, uno vero, che ti dia indipendenza, dignità, un futuro?”.
La riflessione di Vitti colpisce per la sua attualità. In un Paese in cui l’indipendenza economica femminile è ancora una sfida (basti pensare ai dati sull’occupazione delle donne, tra i più bassi in Europa) le sue parole risuonano come un monito. Lavorare non è solo un mezzo di sostentamento, ma anche un atto di autodeterminazione. È la possibilità, diceva l’attrice, di “sapere che la mattina ti alzi e, oltre a badare a tuo figlio – perché non è che lo vuoi abbandonare – vai anche a lavorare. Hai un’occupazione, degli interessi”.

L’emancipazione come presa di coscienza collettiva

Vitti metteva in guardia anche da un altro pericolo, meno evidente ma non meno reale: quello del tempo vuoto. “Molte donne oggi, soprattutto quelle che vivono una certa agiatezza, si ritrovano con tanto tempo libero e pochi interessi. E avere molto tempo a disposizione senza interessi è pericoloso”.

Nel suo discorso non c’è giudizio, ma una lucida presa d’atto: non si tratta di negare la maternità o la famiglia ma di rifiutare l’idea che questi debbano essere l’unico orizzonte concesso a una donna. L’autonomia (economica, intellettuale, emotiva) è la base per poter scegliere, per non dover dipendere, per non essere costrette a rinunciare a se stesse.
In tempi in cui si discute ancora di parità salariale, di conciliazione tra vita e lavoro, di welfare assente e carico mentale femminile, la voce di Monica Vitti ci ricorda che l’emancipazione parte da ciò che insegniamo alle nostre figlie. E forse anche da quello che smettiamo di dire loro.