C’è una decisione che, all’apparenza, sembra innocua e dettata dalle migliori intenzioni ma rischia di aprire una strada molto pericolosa. Non si tratta di una scelta politica o parlamentare, ma di un provvedimento amministrativo dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM).
Chi deve iscriversi e perché
L’Agcom ha stabilito che gli influencer con un seguito consistente – 500 mila follower o un milione di visualizzazioni mensili – dovranno iscriversi a un albo, un vero e proprio registro degli influencer. Numeri alti, certo, ma non irraggiungibili. La misura potrebbe quindi riguardare una fetta molto ampia di chi opera online. L’iscrizione comporterebbe anche l’obbligo di rispettare regole e codici di condotta specifici, con sanzioni amministrative per chi dovesse trasgredire.
E allora sorge una domanda inevitabile: chi decide cosa è corretto? Chi stabilisce il confine tra libertà e violazione?
Libertà non significa caos
In Italia, ogni volta che si parla di libertà, sembra scattare l’allarme ‘far west’. Come se l’assenza di un regolamento fosse automaticamente sinonimo di disordine. Ma non è così. La libertà non è un caos da imbrigliare: è una condizione da proteggere. In molti Paesi, se una materia non è regolamentata, semplicemente si considera libera. In Europa, invece, si tende a vederla come ‘illegale’ finché non vengono stabilite regole, divieti o gabbie normative.
La libertà non ha bisogno di gabbioni: ha bisogno di responsabilità individuale. Dietro la burocrazia si nasconde un rischio ancora più grande: l’arbitrarietà. Se un’autorità può giudicare la precisione o la correttezza di ciò che diciamo, il confine tra tutela e censura diventa molto sottile. E quando la discrezionalità diventa norma, la libertà si riduce a concessione.
Mettere un albo agli influencer significa rischiare di trasformare la parola libera in un privilegio che richiede approvazione preventiva. La domanda resta: vogliamo davvero vivere in un Paese dove parlare comporta un’autorizzazione?










