
Il clima è surreale, non a causa della temperatura ma perché a tratti si ha la sensazione che, per il silenzio della gradinata, il Torino giochi in casa, almeno finché il resto dello stadio non decide di compensare. Due anime di uno stesso popolo, come del resto già accaduto con il pubblico del Milan. In queste righe non si ha tempo né spazio per entrare nel merito, ma permetteteci perlomeno di commentare: bando alle ipocrisie.
Che partita avevano in mente di mettere in atto i granata di Baroni? Quale che fosse, il possesso palla autorevole la sgretola quasi sul nascere: giusto il tempo per prendere le misure del palleggio, la cui qualità è molto più decisiva del mero dato percentuale del possesso palla, e Sučić e compagni blindano la partita ancora prima di debordare nel risultato.
Perché nominiamo in particolare il ventunenne numero otto croato, tra tutti i nerazzurri che passeggiano sulle macerie del flebile pressing torinista? Perché il ragazzo trasuda qualità: per movenze, tocco platinato, intuizioni da “veggente” della tre quarti. In occasione del gol di Thuram, il quale firma il momentaneo raddoppio incrociando plasticamente con il destro, Sučić intravede un sentiero laddove molti altri metterebbero a fuoco soltanto un cespuglio di tacchetti.
Aveva cominciato Bastoni in decollo sverniciando lo zero a zero dal tabellone; il raddoppio di cui sopra; il terzo gol firmato da Lautaro che approfitta della “distruzione dal basso” che complica ulteriormente la vita ai già arrendevoli granata; il quarto con Thuram che si gode la doppia firma accarezzando la ionosfera su invito di Bastoni; una firmetta pure per Bonny, imbeccato da Lautaro.
Il finale è torello nerazzurro, col rimbombo del flebile silenzio, e il Torino che rincorre a vuoto su zolle di mortificazione.
Paolo Marcacci









