ELEZIONI: SCENDILETTO ALLA RISCOSSA! – Il centrosinistra allargato porta a casa Genova con Silvia Salis e Ravenna con Alessandro Barattoni. A Taranto e Matera, invece, si va al ballottaggio. Questi sono – in apparenza – i dati salienti di questa tornata di elezioni amministrative, in cui si è votato in 117 comuni delle regioni a statuto ordinario e in 9 città siciliane commissariate.
Ma dietro i numeri si nasconde una realtà che nessuno sembra voler raccontare: l’ennesima consultazione dove la vera notizia è l’assenza di dibattito e il silenzio assordante del pensiero critico. Tutti allineati, tutti sorridenti, tutti con la stessa narrativa preconfezionata. A destra come a sinistra: non si fa più informazione, ma mera comunicazione partigiana e acritica.
L’affluenza, intanto, resta inchiodata al 56,29%: praticamente identica al passato, nonostante settimane di spot elettorali travestiti da informazione. Un dato che racconta più di mille analisi: la disillusione, l’apatia, la sfiducia. Ma guai a dirlo in TV, nei talk o sui giornali: si rischia di rovinare l’armonia di questo concerto monotono, dove ogni voce fuori dal coro viene zittita, schernita o semplicemente ignorata.
E allora la domanda resta sospesa, più urgente che mai: a cosa serve tutto questo se nessuno ha più il coraggio di dire qualcosa di diverso?
La polarizzazione mediatica è ormai una costante strutturale del panorama dell’infotainment italiano. L’informazione si è trasformata in tifo da stadio, e con essa si è spenta la funzione essenziale del giornalismo critico. Non si tratta più di offrire chiavi di lettura, ma di schierarsi senza se e senza ma, spesso per ragioni di convenienza editoriale. Chi è percepito come vicino a un partito o a un’area ideologica, non si limita a sostenerla: la celebra in modo acritico, trasformandosi in una sorta di strumento di propaganda più che in un analista.
In queste elezioni come in ogni altra tornata, il problema non è l’orientamento: tutti possono avere idee, simpatie, convinzioni. Il problema è l’assenza di spirito critico, soprattutto “in casa propria”. Se non si è in grado di esprimere una minima osservazione scomoda verso chi si supporta, si diventa solo scendiletto del potere. E allora, davvero: a cosa servi?
La degenerazione dell’infotainment
Il concetto di infotainment – la commistione fra informazione e intrattenimento – è degenerato in una dittatura della narrativa unica. In TV, in radio, sui giornali, c’è un’unica melodia da suonare: quella che impone il “direttore d’orchestra”. Nessuna armonia, nessuna variazione. E chi devia viene silenziato, ridicolizzato o espulso dal coro. Questo fenomeno non è solo una patologia del sistema mediatico: è una offesa all’intelligenza del pubblico, considerato come un gregge da condizionare, non come cittadini da informare.
Chi prova a mantenere una voce fuori dal coro viene spesso isolato, dipinto come un eretico o un provocatore. Eppure, è proprio da queste voci che può nascere una riflessione autentica. Sostenere un’idea diversa, persino impopolare, è un atto di responsabilità democratica, non una minaccia.
Infotainment e Elezioni – Il pensiero critico non può essere un reato
Il vero nodo, oggi, è che si è perso il valore del dissenso. Se qualcuno esprime un’opinione non conforme, scatta la richiesta di censura: “cacciatelo via, non può parlare qui”. L’obiettivo non è più discutere, ma cancellare l’interlocutore. Non ci si chiede “perché la pensa così?”, ma si passa direttamente all’insulto personale.
Questa dinamica ha generato un’informazione tossica, dominata da pseudo-esperti e influencer dell’indignazione permanente, pronti a dire tutto su tutto, dalla geopolitica al caso Garlasco. Il rischio è che venga sminuito chi fa questo mestiere con rigore, chi prova a offrire un’analisi seria, anche impopolare. Il pensiero critico è ormai percepito come un fastidio, non come una risorsa.
Il coraggio di essere controcorrente
In un’epoca dominata dai social network, l’ossessione per il like e il consenso immediato ha inaridito il dibattito. Si ha paura di essere minoranza, di andare controvento. Eppure, proprio le idee controcorrente spesso hanno il merito di riaprire il confronto, spingendo chi ascolta a pensare davvero.
Essere minoranza non è un disonore. È una condizione a volte necessaria per difendere la verità, o almeno per cercarla. La società ha bisogno di voci libere, capaci di resistere all’omologazione culturale, e di cittadini disposti ad ascoltare anche chi non dice ciò che vogliono sentirsi dire.
L’Italia mediatica di oggi ha bisogno di una cosa semplice ma rivoluzionaria: autenticità. Solo così si potrà ricostruire una relazione di fiducia tra chi informa e chi ascolta.
ASCOLTA L’EDITORIALE VIDEO CON DANIELE CAPEZZONE E FABIO DURANTI