Il debito pubblico viene spesso dipinto come un mostro pronto a divorare il futuro delle prossime generazioni. Politici e tecnocrati lo evocano per giustificare tagli, sacrifici, austerità. Ma dietro i numeri e le percentuali, raramente si parla delle persone: di chi perde l’asilo nido, di chi rinuncia alle cure, di chi vede la propria scuola cadere a pezzi perché “non ci sono soldi”.
In nome del debito, si sacrificano diritti e benessere, come se la stabilità dei conti fosse più importante della dignità di chi quei conti li vive sulla propria pelle.
Eppure, la storia e l’economia ci insegnano che il debito pubblico non è per forza una condanna. Anzi, può essere uno strumento potente per garantire benessere e sviluppo.
Lo dimostra ad esempio il Giappone: la terza economia mondiale, con un debito che supera il 250% del PIL, eppure nessuna crisi sociale, nessun default, nessun panico sui mercati. Mentre in Europa si tagliavano servizi e stipendi per “salvare i conti”, Tokyo continuava a investire in infrastrutture, innovazione e welfare, sostenendo la domanda interna e la coesione sociale.
Il segreto? Una visione diversa del debito, più umana e meno ideologica. In Giappone, la maggior parte dei titoli di Stato è in mano ai cittadini e alla banca centrale, che può intervenire stampando moneta e garantendo la solvibilità del Paese. In questo modo, il debito diventa quasi un patto interno: lo Stato si indebita con i suoi stessi cittadini per finanziare il loro benessere, non per arricchire investitori stranieri o soddisfare parametri astratti.
Questa impostazione ha radici profonde nella teoria keynesiana. Per John Maynard Keynes, il debito pubblico non è un male in sé: è un modo per sostenere l’occupazione e la crescita nei momenti di crisi, quando il settore privato non investe e la domanda ristagna. Lo Stato, spendendo anche in deficit, può rilanciare l’economia, creare posti di lavoro, aumentare i redditi e, così facendo, generare le entrate fiscali necessarie a ripagare il debito stesso. Non c’è nulla di disumano in questo: anzi, è la politica economica che mette al centro le persone e non i numeri.
Il problema nasce quando il debito diventa un feticcio, un vincolo insormontabile che giustifica ogni taglio e ogni rinuncia. In Italia, ad esempio, l’alto debito pubblico viene spesso usato come scusa per non investire in sanità, istruzione, lotta alle disuguaglianze. Ma chi paga davvero il prezzo di questa ossessione? Non certo i grandi investitori, ma le famiglie che si vedono costrette a rivolgersi al privato per bisogni primari, o che rinunciano del tutto a curarsi.
E poi c’è l’aspetto più inquietante del debito: talvolta diventa il mezzo per bypassare il Parlamento. E’ successo, e perfino in Italia. Dopo la famosa lettera Draghi-Trichet nel 2011 Silvio Berlusconi rassegnò le dimissioni da presidente del Consiglio. L’anomalia? Non servì una sfiducia del parlamento, dunque tecnicamente non era stato delegittimato dal popolo.
“Dovette farlo altrimenti gli speculatori avrebbero continuato a bombardare economicamente il paese”, spiega il prof. Antonio Maria Rinaldi.
Ascoltate la lezione ai microfoni di Fabio Duranti (VIDEO).