Scriveva Cesare Pavese: “Ricordati sempre che i mostri non muoiono, quello che muore è la paura che ti incutono“. In effetti possiamo ben dire che stiamo vivendo la fobopolitica cioè l’uso politico della paura come metodo di governo. Tutto ebbe inizio con la scena delle camionette di Bergamo che vennero impiegate dal sistema mediatico e della manipolazione organizzata precisamente con questo scopo: terrorizzare la popolazione e fare si che essa si adattasse a tutto, rinunciando con resa colma di gratitudine alle proprie libertà e ai propri diritti, reimpostando integralmente il proprio modo di vivere in ragione della presenza di un nemico invisibile che minacciava la vita di tutti e di ciascuno.

In effetti mediante la loro martellante narrazione a tinte terroristiche sono riusciti ad ottenere il loro scopo: per paura di morire i più hanno rinunciato a vivere. Si è imposto un discorso che pretende di espungere ogni ragione di senso e di discussione critica imponendo invece i dati, i numeri e il discorso tecno-scientifico. L’altro giorno sull’Huffington Post è comparso un articolo firmato Boniolo titolato: “La pandemia e i filosofi del parlare a vanvera“.

Questo articolo si abbina a molti altri dello stesso tenore tutti aventi per oggetto la scomunica di ogni tentativo di indagare con altri sorgenti di senso quello che sta avvenendo da due anni a questa parte. Il discorso egemonico pretende di neutralizzare ogni altra possibilità del pensare in senso artistico, poetico, filosofico, religioso, per fare spazio a un unico discorso ammesso: quello sorvegliato dai dati e dalla scienza, ecco perché non è ammessa altra figura di senso che non sia quella tecno-scientifica. Solo la scienza, dunque, deve poter parlare perché ciò che sta avvenendo è un emergenza medico-scientifica cosicché ogni altro discorso venga delegittimato.
Arte, poesia, filosofia e religione non hanno più spazio nel regno della tecnica, della quale segna un compimento perfetto ciò che sta avvenendo.

Tutto quel che accade è semplicemente riconducibile a motivi tecnico-scientifici che solo con le ragioni della tecno-scienza possono essere risolti. Entriamo effettivamente nel compimento di quel regno della tecnica così attentamente studiato da una lunga corrente di pensiero filosofica novecentesca che va da Martin Heidegger a Emanuele Severino e che ha insistito, sia pure con vari accenti e sfumature, sul fatto che il regno della tecnica è intimamente nichilistico, altro obiettivo non avendo se non l’infinito potenziamento di sé, l’infinita creazione di scopi e l’abbattimento di ogni limite alla propria crescita infinita.
E’ curioso che in questo contesto mirato a neutralizzare ogni altra sorgente di senso che magari possa evidenziare i limiti del discorso tecno-scientifico, un filosofo ampiamente critico rispetto alla civiltà tecnocratica quale Umberto Galimberti sembra aver compiuto una sorta di riconversione rispetto all’ordine dominante. Tant’è che Galimberti, il quale splendidamente criticò la civiltà della tecnica nel suo libro Psiche e Techne (1999), pare oggi tra i principali fustigatori di coloro i quali ancora critichino la società della tecnica e del controllo totale.
Lo troviamo molto spesso in prima linea nel fare l’apologia del nuovo ordine tecnocratico della civiltà del leviatano tecnosanitario e del controllo biopolitico totale e totalitario.
Lo stesso Cacciari che sembrava aver assunto posizioni variamente critiche, negli ultimi giorni è riconfluito nell’ordine di coloro i quali ululano in difesa dell’ordine dominante.

Insomma, la situazione non è particolarmente rincuorante anche in ragione del fatto che manca un fronte di intellettuali, filosofi e spiriti critici che sappiano far valere le ragioni altre del pensare critico, del pensare altrimenti, della filosofia, dell’arte e della religione rispetto al monopolio del discorso tecnico-scientifico.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro