Fin dal suo sguardo aurorale, il capitalismo deve affrontare un problema dirimente: come rendere accettabili i vizi su cui esso si fonda e che, da sempre, ogni etica e ogni religione condannano. Egoismo e avidità, cinismo e individualismo, per menzionare solo i principali ingredienti di quella religione imperfettamente secolarizzata che è il capitalismo.

Ebbene, ci pensarono i due sofisti dell’economia, Mandeville con la favola delle api e Adamo Smith con il sofisma della mano invisibile, a trovare la plausibile giustificazione dell’ingiustificabile: l’egoismo e l’avidità cessavano di essere vizi e prendevano a essere virtù, se analizzate dal punto di vista dei loro imperscrutabili effetti sociali. I vizi privati guadagnavano, in tal guisa, l’inedito statuto di concime per il fiorire della virtù pubblica: il paradigma era quello classico della teodicea e della provvidenza, applicato però alle regioni immanenti del nuovo Dio, l’economia di mercato. Quello che in apparenza era il male diventava invece il veicolo per il bene.

Ora, questo paradigma ritorna, mutatis mutandis, anche per quel che riguarda l’odierno totalitarismo sanitario ai tempi del Covid-19. Esso, che in nome della sicurezza per la nuda vita ci chiede la rinunzia a libertà e diritti fondamentali, si basa su un analogo paralogisma, bene evidenziato da Giorgio Agamben. Lo stato terapeutico globalista ci chiede in forme ostentate e grossolane di rinunziare all’attività politica e alla socialità, alla vita pubblica e a ogni dimensione comunitaria: e, insieme, giustifica tutto ciò come suprema forma di partecipazione civica, di responsabilità politica e di saggezza sociale.

Insomma, l’ordine totalitario del globalismo sanitario, che all’ente globalista FMI ha affiancato l’altrettanto globalista ente OMS, ci chiede di rinunziare alla politica per responsabilità politica, di abdicare alla socialità in nome della savia sopravvivenza della società, e di rinchiuderci nella nostra privatezza assoluta in nome del principio della responsabilità sociale.

Il paradosso è lampante: come il birraio di Adamo Smith, nel 1776, vendeva birra non per un interesse privato, ma per un imperscrutabile benessere sociale, così ciascuno di noi, nel nuovo ordine del capitalismo terapeutico, rinunzia alla socialità ma lo fa per il bene della società e rinunzia alla politica ma lo fa per il bene della politica.

Insomma, il famigerato principio direttivo del nuovo capitalismo terapeutico – alludo al principio del “distanziamento sociale” – sarebbe, in realtà, una forma di “vicinanza sociale” rispetto agli altri e, in generale, alla società nel suo complesso.

È uno dei tanti paradossi del tempo in cui ci troviamo a vivere: paradosso che, nemmeno a dirlo, l’ordine del discorso negherà, ripetendo che… v’è l’emergenza sanitaria. Ciò che, appunto, equivale a ripetere tautologicamente il problema, spacciandolo per soluzione.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro


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