Il calcio riuscivano a fartelo vedere senza decoder: non vogliamo indulgere a una facile retorica celebrativa, non sarebbe un buon modo di rendere omaggio a professionisti eccelsi che seppero diventare anche personaggi, ognuno con la sua specificità.

Quasi dei caratteri, o delle “maschere”, al modo della Commedia dell’arte, ma con la sola voce.

Tante voci, anzi, ma ognuna con un timbro inconfondibile: a volte si aveva l’impressione che a ogni modulazione delle corde vocali corrispondesse sempre la partita ideale; il tono metallico e ritmato di Enrico Ameri che ogni settimana sembrava “sposare” la gara di maggiore intensità agonistica; il “graffio” epico e non riproducibile delle corde vocali di Sandro Ciotti che traduceva in una sorta di letteratura orale i match con maggiori rovesciamenti di fronte, oltre a individuare similitudini secondo le quali il cielo sopra San Siro in una giornata autunnale sembrava riprodurre le sfumature che si potevano cogliere nelle pupille di Ornella Muti.

Così parlavano, così raccontavano, interrompendosi a vicenda per ogni fremito di rete, o per gli istanti sospesi sopra al dischetto di un rigore da annunciare, per poi riprendere la linea al climax di una rincorsa.

Sullo sfondo, un’Italia alla quale il calcio andava servito sul vassoio delle pastarelle domenicali: ritualità intoccabile e ancora non frammentata in un mosaico di date e orari. Dal 10 gennaio 1960, la granitica certezza di un paese che in una centrifuga di eventi sarebbe passato dal boom economico alla destabilizzazione degli anni di piombo, per poi approdare all’edonismo degli anni ottanta, ma sempre all’insegna del “Buon pomeriggio” di Roberto Bortoluzzi, del quale non si rammenta un accento poco o troppo chiuso e meno che mai un aggettivo ridondante, che dallo studio centrale sgranava il rosario laico dell’ordine dei campi e delle voci collegate, sempre con quella particolare licenza di interruzione, sottolineata dall’eco di uno “Scusaaaaa…” con cui la voce di Ezio Luzzi incastrava gli accadimenti del “Ceravolo” di Catanzaro o del “Celeste” di Messina tra le note vibranti delle punizioni di Platini e delle doppiette di Roberto Pruzzo.

È stato un fenomeno di cultura, oltre che di costume, caratterizzato tra l’altro dalla soglia elevata di un linguaggio settoriale curato ed accurato, esibito a ritmi a tratti vertiginosi con la naturalezza di chi poteva citare a memoria Ovidio e Cicerone.

Nel frattempo tutto è cambiato, ogni paragone o raffronto storico rischia di sembrare velleitario e insussistente; però ogni volta che si ascolta qualche brano registrato di “Tutto il calcio minuto per minuto” ci si rende conto di quanto alta fosse la soglia di spettacolarità che, senza mai forzare oltremodo i toni della voce, questi radiocronisti sapevano rendere con immaginifica regolarità, facendoci “vedere” la zolla di campo, lo sviluppo dell’azione, il gesto tecnico.

Persino oggi che il calcio lo vediamo in ogni modo e maniera, “Tutto il calcio minuto per minuto” è ancora lì, quando un tifoso è in viaggio o quando qualche impegno familiare lo strappa allo stadio o alla tv e un auricolare, a volte clandestino, restituisce tutto il piacere del racconto scandito di una bella azione, visualizzata con la fantasia.

E allora sì: scusa Ameri, se non possiamo fare a meno di rimpiangervi.

Paolo Marcacci