È tornato il campionato di tutti. Tutti chi? Tutti gli altri, tutti quelli che dalla Ligue 1 alla Bundesliga, dove pure non sono messi male, guardano alla Premier League come alla summa tecnico – finanziaria (in salsa spettacolare) del football continentale.

Cartolina lucida e molto ben lucidata dell’ottimizzazione costi – ricavi, della fruizione ottimale del prodotto, di una certa distribuzione delle risorse, se non proprio equa diciamo perlomeno non sperequata, il che si traduce in una lotta sempre appassionante per il vertice e nella possibilità, già verificatasi ieri pomeriggio, di risultati sorprendenti e di sorprese determinate dagli exploit di questa o quella matricola.

Da quando ha visto la luce, nel 1992, sulle ceneri della First Division, la Premier ha evidenziato una crescita costante di interesse (inteso in ogni sua accezione) e spettacolarità, il tutto con la particolarità che la cornice, intesa come offerta del prodotto – stadio e al tempo stesso di quello televisivo (due ambiti che non sono in conflitto, nella perfida Albione, ma si autoalimentano) si è rivelata importante quasi quanto il dipinto stesso.

Ogni volta che si tenta di citarla come esempio virtuoso, quantomeno per prendere qualche spunto, nel nostro paese salta subito fuori qualcuno a dire che certi aspetti non appartengono alla nostra “cultura”. Oppure, altro argomento abusato, che da loro i biglietti per lo stadio hanno un costo proibitivo, senza considerare che nel rapporto qualità – prezzo ci rimette molto di più chi in Italia spende ottanta o novanta Euro per una tribuna al Franchi, all’Olimpico o al San Paolo.

Un tracciato virtuoso va individuato e poi perseguito, i risultati non piovono sulla testa subito. Ci vuole una mentalità agli antipodi rispetto a quella di chi cammina come un equilibrista sul filo delle plusvalenze, o di quelli che si sistemano i bilanci a vicenda scambiandosi due mediani prezzati ad arte.

È come se il calcio italiano, dopo aver tributato ammirazione e lode a quello inglese, nel parlare delle proprie questioni non potesse fare a meno di citare il titolo di quel famoso libro di qualche anno fa, amaro e ironico al tempo stesso: “Io speriamo che me la cavo”.

Paolo Marcacci


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