Sembra un po’ l’attesa per il discorso presidenziale del 31 dicembre a reti unificate; le differenze stanno nell’ora, le due del pomeriggio; nell’assenza dei fritti di cavolfiore  e delle lenticchie ripassate e, soprattutto, nella soglia di attenzione media, molto più alta, con tutto il rispetto per il Presidente della Repubblica. Un inizio apparentemente leggero, il nostro, perché oggi si celebra anche un fatto di costume, vista la portata dell’evento.

Quando Totti arriva, teso ed elegante, affiancato da Paolo Condò, per qualche secondo lo si pensa titubante, anche perché i primi microfoni non assistono né lui né gli interlocutori. Quando l’audio comincia a funzionare, è come se le pareti del Salone d’onore del CONI si cominciassero a impregnare delle parole di Totti: asciutte, al tempo stesso pesantissime come il marmo, come il marmo gelide. 

Piovono titoli su titoli, ogni volta che Totti si sofferma a terminare un concetto, uno dei tanti che gli stanno a cuore. Alcuni milioni di persone li conoscono, ma amano sentirseli ripetere, una volta tanto: – Le bandiere non passano – allarga il cuore di milioni di appassionati: romanisti, neutrali, persino antiromanisti. 
Lo hanno tenuto fuori da tutto: questo dice; non c’è altro modo per dirlo. Ma nessun altro lo direbbe in questo modo, d’altro canto. Vibrano le colonne del tempio, forse non è soltanto una metafora. 

Ci sta mettendo una faccia per una volta non scanzonata; dopo qualche minuto si capisce che tutto quello che la gente, non solo la sua gente, sperava e voleva che dicesse, lo sta effettivamente dicendo. Forse in pochi credevano che fosse così diretto, così essenziale nella sua durezza. 

Fino a un certo momento, Franco Baldini continua a essere il convitato di pietra di ogni discorso, senza che venga mai nominato. Quando prende il microfono Marco Lollobrigida, lo chiama in causa direttamente; ancor più direttamente Totti enuclea il problema rappresentato dal rapporto inesistente con Baldini e la potenza decisionale, occulta o meno, di Baldini stesso. Si sbriciolano colonne. 

È difficile tenere Totti lontano dalla Roma: monito, colpevolizzazione, ponte tibetano issato verso il futuro. Questa sua frase schiuderà scenari, farà battere piste giornalistiche e aziendali, sarà ulteriore fardello sulle spalle di chi resta. 
Ranieri e Fienga: fuori dalle macerie senza neanche un po’ di brecciolino addosso. Immacolati, magnificati dalle parole del Capitano emerito (le bandiere non trascorrono). E mette la mano sul fuoco per Daniele De Rossi, oltre ogni illazione.

Su De Rossi precisa che, sin da settembre, aveva ammonito vari componenti della dirigenza di non gestire l’uscita di scena del numero sedici come avevano gestito la sua. Si chiama saggezza gestionale. A proposito di Trigoria, intesa come cosmo romanista, dice in pratica che “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo”, quindi la vacanza e l’assenza gestionale in loco producono il moltiplicarsi dei galli in un pollaio. E non si volevano più romani nella Roma, la sua chiosa. 

Vuole fare il direttore tecnico, occuparsi del campo, stare vicino ai giocatori, valutarli, saperli riconoscere: tutto quello in cui eccellerebbe e che in qualsiasi bar della città tutti pensano. In qualsiasi angolo, in qualsiasi quartiere. Esclusa forse una porzione di Laurentino. 
Voleva dare il suo contributo, innanzitutto per amore del club: questo gli è stato impedito. Mai sintesi fu più impietosa. 
– Ascolta sempre le persone sbagliate; se dopo otto anni continua a sbagliare, una domanda se la farà? -: è il suo modo, anche se sembra un paradosso, di salvare Pallotta, il quale – Tante cose non le sa… -. A questo punto è come se il tempio non ci fosse più, letteralmente. Anche perché non c’è più tempio, questa è una nota dell’autore, quando un dio lo abbandona. 

Quando il direttore di Radio Radio, Ilario Di Giovambattista, gli chiede perché non sia riuscito a stabilire un vero rapporto con Pallotta, mena il fendente del definitivo KO: dice che Pallotta, sempre per vie traverse, lo ha cercato negli ultimi tempi. Per due anni non ha sentito nessuno. 

– Quando ti stacchi dalla mamma è dura… -: tutto il dolore di un giorno che, parole sue, lo addolora di più, molto di più rispetto al 28 maggio 2017, quando ha smesso di essere calciatore. Perché quello prima o poi sarebbe comunque accaduto. Oggi è costretto a smettere di far parte della Roma. Non di essere romanista. 
I romani dentro la Roma serviranno sempre, per creare unità. Perché…quando vedi giocatori che perdono e ridono, o dirigenti che sembrano addirittura contenti di aver perso… – Te girano le palle -. Testuale. 

Chi non vive la quotidianità di Roma non percepisce gli umori, non conosce gli stati d’animo. Non sente le radio. Le radio: non nemiche, quindi, ma termometro di un ambiente. L’aveva mai detto nessun altro? 
Quando ha smesso di giocare, obbligato a smettere, come ha detto lui, è come se si fosse aperta una piaga. Oggi è stato come se ci fosse stato sparso sopra il sale. Tanto sale. 

Gli amanti della cabala si segnino le 12.41: l’ora in cui la storia della Roma obbliga se stessa a ricominciare dalla ricostruzione delle fondamenta di un tempio che non c’è più, in un 17 giugno che ha cambiato volto per sempre. 

Paolo Marcacci