Segue a “Le conseguenze di una Euroexit – PARTE I


Le analisi di Realfonzo e Viscione non sono stati esenti da critiche. In particolare si contraddice l’assunzione di base secondo cui, dopo l’uscita dell’Italia dall’euro, l’Europa e il resto del mondo continuino a funzionare come se nulla fosse accaduto. L’uscita dall’euro viene trattata dai due autori come una semplice svalutazione o al limite come l’uscita da un sistema di cambi fissi. 

Molti economisti, al contrario, ammettono che l’uscita unilaterale di un paese dall’eurozona, come l’Italia o la Spagna, determinerebbe un effetto contagio sull’intero sistema bancario europeo, che porterebbe all’uscita disordinata di altri paesi deboli. L’intreccio finanziario nell’eurozona implica cioè quello che Yanis Varoufakis ha descritto come un “castello di carte”, se si toglie una carta, tutto il castello crolla. 

Una conferma viene anche dalla lettura dei risultati dello stress test del Center for Risk Managementdi Losanna, che tiene conto dell’effetto contagio di un eventuale crisi finanziaria e mostra quanto sia fragile il sistema bancario europeo. Il contagio finanziario potrebbe forse essere contenuto da un massiccio intervento sia della BCE sia dell’European Stability Mechanism, andando in soccorso delle banche e degli Stati che necessitano di assistenza per evitarne l’uscita dalla moneta unica.

Molti, però, giudicano inefficaci gli strumenti messi in campo dall’Unione Europea, ma se ciò non fosse vero comunque il contagio implicherebbe un nuovo credit crunch e una nuova pesante recessione, accompagnata da un rafforzamento delle spinte deflattive, che rappresenterebbero altra benzina sul fuoco. Persino sulla capacità della Bce di bloccare la dissoluzione dell’eurozona e assicurare la tenuta del suo sistema finanziario si possono nutrire molti dubbi: si immagini come i mercati potrebbero reagire all’uscita di un paese dall’eurozona,  dopo che la Bce ha impegnato se stessa sull’irreversibilità della moneta unica per tutti i suoi membri mediante prima le operazioni monetarie e poi con il Quantitative Easing.

La credibilità della Bce e quindi della moneta, ne verrebbero danneggiati. 

La seconda critica mossa all’analisi di Realfonzo e Viscione è collegata al fatto che questi hanno trascurato gli effetti della svalutazione, in quanto non si può stabilire l’ammontare della svalutazione che subirebbe la nuova moneta italiana poiché il crollo dell’euro non ha paragoni storici.

Ammettiamo, tuttavia, che la svalutazione sia contenuta e lasciamo stare per ora gli effetti finanziari: se guardiamo al recente passato, molti paesi che hanno svalutato dal 2011, non hanno avuto alcun beneficio: alcuni come Argentina, Gran Bretagna e Giappone, paesi molto diversi tra loro, hanno visto addirittura un peggioramento dei conti con l’estero, che poco sembra avere a che fare con la curva J e molto invece con la carenza di domanda estera. In seguito alla crisi, il commercio mondiale è cresciuto molto lentamente, quindi, serve a poco  svalutare se i tuoi vicini sono in recessione e alla ricerca di risorse per rinforzare il loro sistema bancario indebitato o colpito da pesanti perdite in conto capitale.

La questione viene vista da una prospettiva opposta, invece, dall’economo Alberto Bagnai, il quale non concorda sull’impatto totale che la svalutazione avrebbe  in Italia e, per avvalorare la sua tesi, ci riporta proprio il caso della Gran Bretagna che, dopo il 2008, ha reagito allo shock Lehman con una svalutazione secca, toccando nel quarto trimestre il 13%.

In questo contesto qualcuno parlò di default? Il Regno Unito è stato escluso dai mercati finanziari? I suoi tassi di interesse sono schizzati alle stelle?

L’autore, infatti, sostiene che la svalutazione è la normale risposta a uno shock esogeno e il creditore, aspettandosela, la predilige rispetto a una bancarotta. Bagnai sostiene inoltre che, l’indebitamento estero del settore pubblico inglese ha continuato a crescere, segno che nonostante la svalutazione i mercati hanno continuato ad avere fiducia nel governo.

Il motivo è chiaro: il governo britannico, avendo mantenuto la sovranità monetaria è perfettamente liquido, cioè può soddisfare le proprie obbligazioni stampando moneta. Ovviamente i numeri dell’Italia sono più preoccupanti, prevedendo una svalutazione circa del 10%. Saremmo insomma fra una volta e mezzo e quattro volte la perdita subita dai creditori inglesi in seguito alla svalutazione della sterlina. Un evento grave, suscettibile forse di incrinare la fiducia dei mercati, ma tutt’altro che catastrofico o senza precedenti.

Ci sono poi diversi fattori che non si sono presi in considerazione, ad esempio, lo spread che abbiamo e stiamo pagando segnala che i paesi creditori stanno incorporando nel tasso di interesse un premio per il rischio connesso all’eventuale svalutazione dell’Italia.

Tale evento, perciò, è già stato scontato dai mercati, che incassano cospicui interessi a titolo di risarcimento anticipato del danno. Ciò, secondo l’economista italiano, porta a due considerazioni: la prima è che, poiché stiamo già scontando il costo dell’evento, i mercati non sarebbero penalizzati dalle misure prese dal governo italiano e non avrebbero motivo di reagire in modo protezionistico; la seconda è che da anni ormai stiamo pagando il costo dell’uscita, in termini di premio per il rischio degli investitori esteri, senza però riscuoterne il beneficio, in termini di recupero dell’autonomia monetaria e valutario e di rilancio dell’economia. 

Stiamo pagando in anticipo una colpa che non è tale e la stiamo pagando per non averla commessa. Chiaramente questa situazione è tanto paradossale quanto iniqua e dovrà trovare una soluzione.