Il celebre cartografo veneziano, che, nel 1684 fonda nella città la famosa Accademia Cosmografica degli Argonauti, ci guida in un percorso leggendario all’interno della sala Dorica del Palazzo Reale di Napoli, nella quale Atena, Ares, Ercole, Omero, Tucidide ed Eorodoto guardano attenti l’incontro di Gian Battista Vico con Giacomo Leopardi.

Sono passati 350 anni dalla nascita di Gian Battista Vico a Napoli e ben 200 anni dalla composizione dell’”Infinito” di Leopardi. 54 anni dopo la morte di Vico (1744) nasce a Recanati il poeta, il quale sceglierà poi di vivere (fino alla sua morte) nella stessa città dello studioso: Napoli è il luogo, dunque, perfetto per l’occasione. L’incontro fra i due autori è una fantasia, un vis-à-vis che non è mai potuto accadere nella storia ma possibile con “Il corpo dell’idea”, una mostra letteraria e trasversale che include gli Dei e l’arte classica (grazie ai prestiti di Palazzo Reale e del Museo Archeologico Nazionale di Napoli). L’emozione è grande, perché si ha realmente l’impressione di assistere a un dialogo in atto. Il busto di Omero ci ricorda i suoi canti e dona al discorrere un tempo millenario. Gli dèi, invece, come divinità, conferiscono allo spazio l’assenza stessa del tempo. Il risultato è un luogo misterioso e onirico e si cammina lentamente con riguardo verso ciò che sono le radici della nostra cultura occidentale.

La presenza di Omero, testimonia l’arte del racconto in continuo mutamento, che poi, con il passare del tempo, si coagula nella scrittura dei testi dell’Iliade e dell’Odissea. Tucidide dedica gran parte della sua vita a narrare le Guerre del Penoponneso, mentre Eorodoto, che descrive le Guerre Persiane, è attratto anche dagli usi e costumi delle popolazioni barbare fino allora sconosciute. Se il primo è autore antico, il secondo introduce un’analisi storica, più moderna. I loro busti sono uniti: un unico blocco di pietra da cui partono due sguardi, l’uno verso sinistra (il passato) e l’altro verso destra (il futuro).

Edita per la prima volta nel 1725 la “Scienza nuova”, l’opera summa di Vico, (il cui titolo completo è “Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti”), ripercorre le fila delle nostre origini storiche e sociali includendo un sapere che si fonda sulla conoscenza possibile dell’azione umana (di ciò che l’uomo “ha fatto” e fa). La dialettica fra Vico e Leopardi tocca il mito, la scienza, la geografia, la cultura, la letteratura e la storia, elementi questi, che emergono (sia dai testi presenti che delle statue classiche) in perfetta sintonia quasi senza alcuno sforzo. Pubblicato postumo nel 1898 – 1900, a cura di Giosuè Carducci, lo “Zibaldone” di Leopardi è forse il testo che più dialoga con la “Scienza nuova”. Il poeta inizia a scrivere, fin da giovanissimo, quasi una sorta di diario al quale affida i suoi pensieri e riflessioni, che si declinano in testi di natura eterogenea, la struttura complessa ne svela molteplici stili giungendo a una soluzione omnicomprensiva del suo scrivere. Dalle statue ai tesi di Vico si passa manoscritti di Leopardi, che ne svelano la grafia e i suoi ripensamenti. Poterli leggere, anche solo alcune pagine, significa un po’ spiare un qualcosa che non è ancora finito ma in corso d’opera e se davvero si ha tale curiosità bisogna consumarla lì, nella sala Dorica, con i propri occhi.

Fabiana Cacciapuoti, la curatrice, introduce un dialogo in atto che non si conclude con il poeta di Recanati. L’approccio multimediale avvolge la mostra: le proiezioni muovono quasi le statue (come nel caso delle ombre dei guerrieri sul busto di Omero) e il mappamondo splende di una luce propria che modula la sua stessa superficie cambiandone le geografie e le sembianze. La tecnologia fa il suo ingresso e la scrittura, incisa e poi modulata con l’inchiostro, diventa ora suono e immagine in movimento.