La champions league non è un parco dei divertimenti.

Non è Disneyland, non ci sono giostre e pop corn. La coppa dei campioni, per dirla e scriverla come si diceva e si dovrebbe, è una cosa seria, è la rassegna delle migliori, è la passerella che porta all’Oscar, dunque Hollywood, d’accordo, ma non per i lustrini e gli addobbi ma per il titolo che va a premiare il merito.

Sessantadue anni di storia, sessantatré dalla nascita che coincise, guarda un po’ le combinazioni, con il primo vagito di Michel Platini, giorno ventuno del mese di giugno dell’anno millenovecentocinquantacinque. Fu questa la data della riunione esecutiva della commissione Uefa che varò il torneo, allora ristretto per poi gonfiarsi fino alla formula attuale, un inclusive tour che apre le porte non proprio ai campioni in carica ma a chi desidera esserlo di diventarlo. Torneo da leggenda e di eroi, coppa che coinvolge i club più prestigiosi, di censo e di fatturazione. La funzione della champions è quella di smaltire la nenia del campionato, certe partite molli come un gelato che si squaglia al sole, certe sfide presentate come fossero faraoniche ma che si trasformano in sagre paesane. No, la champions non bluffa, non c’è il trucco, vanno avanti i migliori, va avanti la tecnica e non soltanto la tattica, prevalgono i valori di squadra però esaltati dal colpo dell’artista, del singolo, come da sempre e per sempre in questo gioco meraviglioso.

La champions mette assieme attori di ogni parte del mondo, potrebbe essere ribattezzata mondiale per club se già non esistesse questo fake game che vede puntualmente le europee prevalere sul resto dei continenti. Mondiale perché qui ritrovi argentini e brasiliani, uruguagi e africani e asiatici a irrobustire l’atlante del vecchio continente, che almeno nel football, è la terra più giovane e fresca. Chi vince alza la coppa e la riempie di denari, non soltanto il prestigio ma anche il bilancio contabile, non soltanto gli onori ma anche l’onere di tenere a bada uscite ed entrate, compito questo sempre più difficile e pieno di trappole e insidie. Si va in champions alla ricerca della notorietà e del bingo finanziario, è giusto che sia così, il mondo dei professionisti non assolve a missioni evangeliche, va al sodo, punta alla sostanza, l’almanacco questo chiede e riporta ma il fair play finanziario esige anche una coerenza che spesso è mascherata. Il discorso, dunque, si allarga, dal campo di gioco alle casse sociali, a club che sono ormai banche, istituti di credito (a volte di discredito). Non è opportuno scandalizzarsi, il denaro va fatto girare, se si ferma è sintomo di cattiva gestione o di malaffare. La champions eccita gli interpreti, ubriaca i tifosi. C’è di peggio nella vita.