
Negli ultimi giorni le dichiarazioni di due membri del governo su violenza di genere e parità hanno suscitato un acceso dibattito – e non senza ragione. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha affermato che “nel codice genetico dell’uomo […] nel loro subconscio, c’è ancora una resistenza” all’uguaglianza di genere, frutto di “una sedimentazione … che si è formata nei millenni di oppressione e superiorità” maschile.
Parallelamente, la ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha espresso scetticismo sull’efficacia dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole nella prevenzione dei femminicidi. Secondo lei, non esisterebbe una correlazione evidente tra questi percorsi educativi e la riduzione della violenza. In più, Roccella ha lasciato intendere che il fatto che molte donne non vengano uccise sia una sorta di ‘fortuna’, una frase che ha ulteriormente alimentato le polemiche.
Queste parole non sono semplici commenti: rivelano come alcuni esponenti del potere politico concepiscono la natura umana e definiscono le loro strategie di contrasto alla violenza contro le donne. Meritano di essere prese sul serio, non solo perché generano dibattito ma perché riflettono una narrazione culturale che rischia di anestetizzare l’impegno sociale e di rinforzare un senso diffuso di rassegnazione.
Un racconto che normalizza il destino
Quando si sostiene che la subordinazione femminile abbia radici ‘millenarie’ o che un tratto di resistenza all’uguaglianza sia inscritto nel ‘codice genetico’ maschile, il pericolo non è solo sociologico ma simbolico. La parità rischia di essere letta non come un obiettivo concreto, ma come un’aspirazione ostacolata da fattori biologici inevitabili. In questa narrazione, l’uguaglianza diventa un miraggio: formalmente riconosciuta, ma internamente ostacolata da mentalità persistenti e difficili da estirpare.
Allo stesso modo, negare il ruolo centrale dell’educazione affettiva nella prevenzione della violenza significa rinunciare a uno strumento fondamentale per il cambiamento. Considerarla un’attività ‘laterale’ o secondaria vuol dire non cogliere che il vero antidoto alla violenza è costruire relazioni consapevoli fin dall’infanzia, basate su empatia, rispetto dei limiti e riconoscimento dell’altro.
Il prezzo dell’inerzia culturale
Se prevale la narrativa del destino biologico o della resistenza inconscia, il passo successivo è la rassegnazione. L’idea che ‘siamo tutti colpevoli’ può sembrare inclusiva, ma rischia di trasformarsi in una giustificazione diffusa, depoliticizzando la responsabilità. Se la violenza è considerata inevitabile, non serve costruire strumenti di prevenzione, basta ‘accettare il fatalismo’.
Le conseguenze pratiche sono evidenti: minimizzare il ruolo dell’educazione affettiva o sminuire la possibilità di superare la ‘resistenza maschile’ riduce il sostegno alle vittime e trasforma le politiche di prevenzione in opere di carità anziché in investimenti strutturali per la società.
Un aspetto spesso trascurato riguarda l’empatia tra donne, oggi spesso carente nei contesti relazionali e professionali. La mancanza di solidarietà può alimentare isolamento, incomprensione e competizione, lasciando chi subisce violenza senza una rete di supporto naturale. Coltivare empatia e sostegno reciproco tra donne non è un gesto simbolico: è un elemento concreto di prevenzione, resilienza e protezione collettiva.
Un altro elemento centrale della disuguaglianza riguarda il mondo del lavoro: i salari delle donne e le loro posizioni professionali non sono ancora paritarie rispetto a quelle degli uomini. Differenze salariali, carenze di rappresentanza nei ruoli di leadership e difficoltà di accesso a opportunità di carriera equivalenti rafforzano il divario di potere e contribuiscono a perpetuare la vulnerabilità economica e sociale delle donne.
Una proposta forte: l’educazione affettiva come priorità
Occorre un cambio radicale di prospettiva. Non basta indignarsi per le parole di Nordio e Roccella, anche se necessario. Serve costruire un discorso politico e culturale alternativo, che ponga al centro:
Educazione sessuo-affettiva integrata e diffusa: non un’attività laterale ma un pilastro della formazione scolastica, che insegni empatia, rispetto dei confini e consapevolezza dei desideri propri e altrui.
Formazione per adulti: genitori, insegnanti e operatori sociali devono essere coinvolti attivamente. Il cambiamento culturale non si impone solo dall’alto, ma si costruisce attraverso le relazioni quotidiane.
Politiche pubbliche strutturali: non basta celebrare il 25 novembre. Fondi costanti per centri antiviolenza, case-rifugio e reti di supporto sono essenziali. Le leggi contro la violenza vanno accompagnate da investimenti nella prevenzione, non solo in interventi emergenziali.
Narrazione alternativa: media, istituzioni e società civile devono raccontare storie che non riducano gli uomini a ‘predatori per natura’ né le donne a vittime passive, ma mostrino la complessità reale delle relazioni e la possibilità di trasformazioni positive.
Le parole pronunciate nei palazzi del potere hanno un peso enorme, perché plasmano il modo in cui la società interpreta la violenza: come un destino inevitabile o come una ferita da affrontare. Le affermazioni di Nordio e Roccella non bastano a essere semplicemente respinte; rappresentano un richiamo urgente ad alzare il livello del dibattito.
Salari bassi e disuguaglianza perpetua
Un ulteriore elemento chiave della disuguaglianza economica emerge dai dati più recenti. Secondo il Rendiconto di genere 2024 dell’INPS, le donne percepiscono stipendi medi inferiori di oltre il 20 % rispetto agli uomini, con differenze particolarmente forti in alcuni settori: il gap salariale è del 23,7% nel commercio, del 32,1% nei servizi finanziari e assicurativi, e del 16,3% nell’ospitalità. Inoltre, la rappresentanza femminile nelle posizioni apicali rimane molto bassa: solo il 21% dei dirigenti è donna, secondo lo stesso report INPS.
Dall’altro lato, i dati Istat mostrano che il gender pay gap orario (retribuzione media oraria tra uomini e donne) è pari al 5,6% su scala nazionale. Questo divario è molto più alto tra chi ha un titolo di studio elevato (16,6% tra i laureati) e tra i dirigenti (30,8%). Questi numeri non sono dati astratti: riflettono una disuguaglianza strutturale che impedisce alle donne di ottenere piena autonomia economica e ostacola la loro leadership nei luoghi decisionali, contribuendo anche al senso di isolamento e vulnerabilità.
Tappe legislative italiane principali (1975–2022)
1975 – Nuovo Codice di diritto della famiglia
1978 – Legge 194 sull’aborto
1981 – Abrogazione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore
1992 (25 febbraio) – Legge sulle pari opportunità nell’attività economica
1996 (Legge n. 66) – Violenza sessuale diventa reato contro la persona
1999 (Legge 20 ottobre) – Donne nell’esercito (ultimo Paese NATO a consentirlo)
2013 (Legge n. 66) – Modifiche al codice penale per la tutela contro violenza e minori
2022 – Le donne possono dare il proprio cognome ai figli










