Nel cielo grigio di Gaza e sulle acque inquiete del Mar Rosso, la guerra prende respiro e si espande. Siamo a Beit Hanoun, inizio luglio. Parte l’ennesima imboscata: cinque soldati israeliani cadono sotto il fuoco, altri quattordici restano a terra feriti. La risposta è immediata e brutale: jet israeliani colpiscono Khan Yunis e altre aree densamente popolate. Le immagini che filtrano mostrano corpi estratti dalle macerie, madri che stringono bambini senza vita e il fumo in salita dove prima c’erano case.
Nel frattempo a Washington Benjamin Netanyahu incontra Donald Trump per discutere di un possibile cessate il fuoco di 60 giorni. Sul tavolo abbiamo lo scambio graduale di ostaggi, un fragile ritiro delle truppe, l’apertura di corridoi umanitari. Ma il Qatar, come riporta anche The Guardian, gela gli entusiasmi: “Non è questione di giorni”, avvertono da Doha. Il piano israeliano per spostare 600.000 palestinesi in un’enorme area-campo a Rafah ha fatto scattare l’allarme nelle cancellerie internazionali. Esperti giuridici lo definiscono senza mezzi termini come ‘un progetto da tribunale dell’Aia’.
Malnutrizione infantile: +150% in un solo mese
Mentre la diplomazia arranca, la tragedia quotidiana a Gaza esplode: gli ospedali (già svuotati da mesi di guerra) non reggono più. Mancano antibiotici, anestetici e incubatrici. I reparti pediatrici vedono crescere ogni giorno il numero di piccoli corpi scheletrici portati dalle famiglie. Oltre 5.000 bambini sono stati trattati per malnutrizione acuta solo a maggio. Il 90% delle strutture sanitarie non è più operativo. Il latte in polvere è oro. L’acqua, veleno. L’infanzia a Gaza non è più un diritto: è un ricordo. Qui la panoramica: The War on Gaza’s children.
La distribuzione degli aiuti è diventata una roulette russa. Presso i centri della Gaza Humanitarian Foundation, la gente si accalca per un sacchetto di farina o una scatola di datteri. Le truppe sparano. Restano a terra donne, ragazzi, bambini con le mani vuote. Secondo l’UNICEF, oltre 70.000 bambini sono oggi in pericolo grave e immediato.
Da Gaza allo Yemen
A migliaia di km da Gaza si accende un altro fronte: il Mar Rosso diventa teatro di una guerra silenziosa. I ribelli Houthi, dallo Yemen, lanciano un attacco devastante contro la petroliera greca Eternity C. Droni esplosivi, razzi, il boato che scuote l’acciaio. Tre marinai muoiono sul colpo e due rimangono gravemente ustionati. È il secondo assalto in due giorni: un’altra nave, la Magic Seas, era stata già colpita. I ribelli dicono di agire ‘in nome della Palestina’, ma i danni sono globali. Il traffico navale nel Mar Rosso è crollato, i mercati vacillano e il rischio di paralisi commerciale è reale.
Gli Stati occidentali denunciano un’escalation strategica. Ed ecco le reazioni a catena: Israele risponde bombardando porti e infrastrutture houthi. L’Europa attiva nuovamente Operation Aspides, nel tentativo di proteggere le rotte commerciali ma la posta in gioco va oltre: Gaza non è più solo una crisi locale. È diventata il fulcro geopolitico ed emotivo di un intero Medio Oriente in fiamme.
Ogni giorno è come un domino: pezzi che cadono, si rialzano ma il gioco resta truccato. Nessuno vince, perché non è pensato per far vincere qualcuno ma solo per continuare. In questo scenario politico la vittoria non è mai delle persone ma di chi ne controlla i confini, le risorse e il silenzio. Un equilibrio precario che si regge sulla ripetizione della caduta.










