L’ultima delirante uscita di Mengoni sull’utero in affitto di cui non avevamo alcun bisogno

Sono queste le parole recentemente pronunziate dal cantante Marco Mengoni, prontamente riportate con zelo da tutti i più letti e, soprattutto, più venduti quotidiani nazionali: “Non mi rappresento un Paese in cui la maternità surrogata è un reato.”

Così parlò Marco Mengoni, a giudizio del quale, dunque — ma anche a giudizio di larga parte del fronte omologato dei cantori del pensiero unico liberal-progressista — comprare un figlio mediante la pratica dell’utero in affitto rientrerebbe fra i sacri diritti universali dell’essere umano.

Diritti o capricci?

Curiosa epoca, in effetti, quella nei cui spazi reificati i capricci di consumo delle classi possidenti, fondati magari anche sulla mercificazione integrale della donna e dei nascituri, vengono celebrati come diritti universali. Il nostro Sibadi è il tempo in cui i capricci e i desideri pretendono di ergersi a diritti civili o universali, mediante la ben nota pratica della liberalizzazione propria della civiltà del turbocapitale San Frontier. Giova allora rammentare, una volta di più, per quali motivi l’utero in affitto, o maternità surrogata che dir si voglia — e così preferisce in effetti appellarla la neolingua liberalenon è un diritto, ma una pratica abominevole.

Mercificazione e sfruttamento

Anzitutto per i già richiamati processi di mercificazione, in grazia dei quali il ventre della donna diventa un magazzino aziendale, e il nascituro decade a merce on demand, programmata magari anche con possibili derive eugenetiche. In secondo luogo, non debbono passare inosservati i processi di sfruttamento sottesi alla pratica della maternità surrogata. Abbiamo qui, infatti, il classico teorema della libertà liberale, in forza del quale nessuna donna sarà costretta a mettere in affitto il proprio utero, e però poi le donne dei ceti subalterni non potranno fare altrimenti per via della loro condizione economica.

Amore, relazione, non consumo

Non dimentichiamo, infine, che avere un figlio non è un diritto, ma è l’esito di un incontro, di una storia d’amore e di una relazione tra un uomo e una donna. Il rapporto che ci lega al figlio non è quello del consumatore che desidera una merce, è invece quello dell’amore incondizionato e gratuito per il figlio stesso, come magistralmente insegna la vicenda biblica di Re Salomone. Quando gli si presentarono dinanzi due donne che pretendevano entrambe di essere la madre del bambino in fasce, Re Salomone propose di tagliare in due l’infante e assegnarne una metà ciascuna.

Solo allora si capì qual era la vera madre, quella che si disse disposta a cedere per intero il bambino all’altra, purché egli non venisse tagliato e potesse continuare a vivere nella sua pienezza d’essere. Perché questo è l’amore per il figlio: desiderarne la piena realizzazione in tutta la sua potenza d’essere. Volo ut sis, voglio che tu sia.
Questa, secondo Agostino d’Ippona, è la formula magica dell’amore. Tutto il contrario, dunque, del desiderio autocentrato del consumatore, che tanta libertà ha quanta può comprarne, e che pretende di trasformare tutti i suoi capricci di consumo in diritti sacri codificati dalla legge. Sarebbe allora bene che Mengoni posasse per un istante il microfono e riflettesse pacatamente e seriamente su questi temi, per evitare di ribadire pappagallescamente gli schemi mentali propri della civiltà merciforme di cui siamo abitatori.

RADIOATTIVITA’ – LAMPI DEL PENSIERO QUOTIDIANO CON DIEGO FUSARO