C’è un’immagine che vale più di mille editoriali: una pagina specchio delle nostre priorità e di come vengono trattati certi temi. Il 14 aprile su Repubblica, campeggia un titolo enorme: “Mosca fa strage di civili”. Più sotto, quasi sussurrato, un altro: “raid israeliano sull’ultimo ospedale a Gaza”. La gerarchia è chiara, la narrazione su dove stare è servita.
Il peso delle parole, la leggerezza delle coscienze
Non si tratta di negare la gravità dei missili russi su Sumy, né di minimizzare la tragedia ucraina. Ma colpisce la sproporzione: perché la morte di civili a Sumy merita il grido, mentre quella di civili a Gaza si accontenta di una nota a margine? Perché la Russia “fa strage”, mentre Israele “fa un raid”? La scelta del carattere tipografico, in fondo, è già una scelta politica.
E’ qui che alberga il confine sottile tra informazione e narrazione.
Il rischio è quello di un’informazione che diventa narrazione, che seleziona non solo i fatti ma anche il modo in cui dobbiamo indignarci. Una guerra vale più di un’altra? Un civile ucraino pesa più di un bambino palestinese? La prima pagina di oggi sembra suggerirlo, e questo dovrebbe inquietarci.
I giornali non sono tribunali, ma hanno una responsabilità: dare proporzione alle tragedie, non gerarchie di dolore. Quando la sofferenza viene pesata a seconda della bandiera, l’informazione smette di essere servizio e diventa complicità.
In un’epoca in cui la verità è già fragile, anche la scelta di un titolo può fare la differenza tra cronaca e propaganda.
Abbiamo commentato questa prima pagina a ‘Un Giorno Speciale’ con Giovanni Frajese e Alberto Contri.