Ama e ridi, se amor risponde, piangi forte se non ti sente. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior

Ti sono caduto accanto. Tu stavi muta con le ciglia chiuse. Ti baciavo la nuca e quasi non sapevo“. Cesare Pavese.
Parliamo d’amore. Massima fonte di ispirazione poetica nei secoli e scelte, se vogliamo, difficilissime da compiere. Perché le cose belle sono tantissime, no? Vogliamo divertirci a celebrare questa ricorrenza usuale, abusata, un po’ troppo pop e un po’ troppo pubblicitaria, però nella maniera letterariamente più degna possibile. Non solo di poesia tradizionale, ma anche di poesia cinematografica.
Pensate alla scena finale di Nuovo Cinema Paradiso, con tutti gli spezzoni dei baci raccolti per il piccolo Totò, divenuto nel frattempo un grande regista, per chi ha visto il film (per chi non ha visto che vada a vederlo, corra a vederlo, a colmare questa lacuna).

Pensate poi alle frasi di tanti dei nostri migliori cantautori. Per me, per esempio, Fabrizio De André ha scritto il verso d’amore più bello del Novecento, in mezzo a tanti autentici poeti. Perché lui poi, per vezzo, non si definiva tale.
In via del Campo scrive “Ama e ridi, se amor risponde, piangi forte se non ti sente. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
In Farewell Francesco Guccini presenta questo incipit un amore trascorso, andato e rivissuto nel ricordo: “Sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent’anni portati così come si porta un maglione sformato su un paio di jeans“.

Dal Dolce Stil Novo a Leopardi

E’ inutile che io stia qui a ricordarvi l’amore celebrato dai poeti del Dolce Stil Novo, dei quali fece parte il giovane Dante Alighieri con la sua “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Un amore che parla di una donna angelicata, come voleva la tradizione stilnovista, una creatura resa eterea, molto poco carnale. Di fatto non abbiamo mai saputo quanto fosse bella Beatrice.
In Francesco Petrarca abbiamo capito un po’ di più della fisicità di Laura, perché i tempi erano già cambiati. Siamo quasi all’alba dell’Umanesimo.
Una grandissima testimonianza d’amore la fornisce nelle sue lettere a più di una donna delle quali era via via innamorato, senza poter mai consumare quegli amori, Giacomo Leopardi, che non ha mai avuto una vera relazione amorosa, però ha saputo scrivere d’amore da par suo. Per esempio alla nobildonna Fanny Targioni Tozzetti.
Potrei andare avanti nei Promessi Sposi. Sì, non si parla di amore inteso come innamoramento e come consumazione dell’amore verso un’altra persona. Ma l’episodio della madre di Cecilia, con la peste che infuria, con la morte che ha già colto dentro la casa della signora ben due volte, con questa bambina tenuta in braccio ma già di fatto uccisa dalla malattia, è comunque una grandissima testimonianza d’amore.

Il capolavoro di Montale

Detto tutto questo, scelgo di leggere una testimonianza di un grandissimo poeta del Novecento che deve far parte obbligatoriamente del Gotha della nostra letteratura. Un poeta troppo poco letto nelle scuole e sempre con le stesse cose.
In genere si parla sempre di un amore giovane, si parla sempre dei Romeo e Giulietta. Al di là dell’epilogo, che nella letteratura poi è quasi sempre tragico per quanto riguarda le storie d’amore, a parte Renzo e Lucia che serenamente riescono a sposarsi e ad invecchiare insieme. Paolo e Francesca? Non ne parliamo. Amore peccaminoso, ma che allo stesso tempo, pur dovendo essere condannato secondo le regole della visione sacrale, commuove Dante, che li mette all’inferno ma è poi partecipe del loro dolore.
Stavolta però celebriamo un amore poetico, ma anche reale. Che è non soltanto un amore anziano cantato e descritto da un anziano nei confronti di quella che era stata la sua sposa. Un capolavoro assoluto, secondo me, che Eugenio Montale dedica a quella che era stata sua moglie, Drusilla Tanzi.

Poetessa a sua volta, scomparsa molto prima del poeta – tra l’altro – con il particolare che serve a far capire il capolavoro assoluto di Montale. Drusilla Tanzi era ipovedente. Di conseguenza il titolo della poesia: “Ho sceso dandoti il braccio” vuole identificare quella che era un’abitudine quotidiana del poeta con sua moglie, la quale si appoggiava a lui semplicemente e quotidianamente per scendere le scale o comunque per camminare. E in questa poesia c’è il ribaltamento, grazie all’amore, dei canoni della realtà quotidiana e non soltanto la celebrazione del ricordo, che sarebbe di per sé anche banale, per quanto stiamo parlando di un capolavoro; ma la persistenza dell’amore oltre la morte: omnia vincit amor.
Io credo che invece di ricorrere alla letteratura classica, in primis bisognerebbe ricorrere a questa poesia di Eugenio Montale:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Paolo Marcacci