“Lo smart working conviene alle aziende, più che ai lavoratori”: è questo il titolo inequivocabile proposto da La Nazione in data 14 giugno 2021.

Ancora una volta, ciò che fino a ieri veniva diffamato come complottismo ora viene candidamente ammesso anche dagli autoproclamati professionisti dell’informazione. Vero è comunque che una menzogna ripetuta migliaia di volte può facilmente essere contrabandata come verità. E ciò vale anche per lo smart working, che per mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria è stato osannato come l’ottava meraviglia da parte della retorica neoliberale.

Intendiamoci, che lo smart working sia splendido è vero solo a una condizione: vale a dire se lo si analizza dal punto di vista del blocco oligarchico neoliberale. Che lo smart working sia inferno per gli sfruttati e paradiso per gli sfruttatori appare limpidamente se si considera ad esempio la questione dei costi legati ai pasti, alle strutture, ai riscaldamenti e così via. Tali costi ricadono ora integralmente sulle spalle dei lavoratori, le cui dimore sono state repentinamente mutate in altrettanti uffici personali.

A ciò si aggiunga ancora il fatto che, mediante le tanto glorificate pratiche dello smart working, evapora la linea divisoria tra tempo di lavoro e tempo della vita. Tra luogo del lavoro e luogo della vita. La casa diventa ufficio e il tempo trascorso in casa si muta in tempo potenzialmente sempre disponibile per la valorizzazione del lavoro. Il capitale espugna così la dimora come ultimo fortilizio non ancora colonizzato.

Insomma, da qualunque inquadratura lo si analizzi, lo smart working è un paradiso soltanto per i gruppi dominanti. Gli stessi per inciso che sguinzagliano i loro intellettuali di completamento per celebrarlo a reti unificate come prodigio per tutti benefico. Per i gruppi dominati resta soltanto un inferno.

RadioAttività, lampi del pensiero con Diego Fusaro