Otto procure si occuparono di Pantani per il presunto doping, neanche Al Capone ricevette tante attenzioni dalla magistratura. 
Poi il poveretto morì, solo, in circostanze quantomeno sospette ove sembrerebbe che i sanitari che intervennero sul posto videro una scena assai diversa rispetto a quella emersa dalle risultanze ufficiali. 

Ma ormai il morto probabilmente non interessava più a nessuno, e quindi, non si approdò a nulla. 

La macchina della giustizia estremamente sollecita con il campione ancora in vita e nel pieno dell’attività agonistica, improvvisamente si eclissa quando del campione non rimangono che i nudi resti in una camera d’albergo dimenticata da tutti. 

I miti purtroppo non sappiamo proteggerli. 
Anzi, pensiamo quasi di essere in credito nei loro confronti perché li sommergiamo di affetto e perché ne diventiamo tifosi, senza pensare che il nostro sostegno appassionato è il riflesso e la gratitudine che riserviamo a chi ci dona gratuitamente emozioni straordinarie e talvolta irripetibili. 

Maradona proveniva da una famiglia semplice, povera, con poca istruzione, in un ambiente degradato, malsano, disadorno.  

La pezza di cuoio rappresentava uno svago permanente, forse l’unico svago possibile per chi viveva nella miseria più assoluta. 

Ma quel giovane all’applicazione costante univa un talento inimitabile, e come assai spesso accade nel calcio la crescita avvenne in maniera esponenziale. 
Le famiglie che dovrebbero fare da scudo valoriale e da sentinella educativa ben presto vengono sostituite da avidi procuratori, da viscidi faccendieri e da presunti amici che improvvisamente si moltiplicano. 

Il campione diventa merce, una gallina dalle uova d’oro. 

Pochi si preoccupano della persona, mentre tanti scrutano l’opportunità di una vicinanza cinica e profittevole.
Senza solide basi, senza validi sostegni, in ambienti spietati, salire dalle stalle alle stelle è come stendere una molla, tanto più la stressi verso l’alto tanto più ripiomberà in basso con grande fragore.

Di Maradona, di Pantani ricordo ancora giornalisti, membri delle federazioni, e tanta gente comune che dinanzi al campione in difficoltà riavvolgeva il nastro e cambiava copione. 

Non vendeva più il campione dello sport ma il drogato o il dopato. 

Si monetizzava la nuova emozione, quella di vedere il campione un tempo acclamato, ridotto alle corde. 

E quando le belve fameliche mollano la preda la vedi spolpata, sola, impaurita. Un campione ormai privo delle sue gesta è un campione che non è più in grado di emozionare. Il ricordo pian piano si affievolisce, e la loro decadenza li rende inservibili, per tanti quindi, inutili, finanche scomodi nelle loro miserie. 

Diego e Marco erano persone generose. 

Marco è vissuto ancora meno, si è distrutto prima. Ma se Diego è stato il calcio. Marco è stato il ciclismo. Ha vinto poco, d’accordo. Ma in me ha suscitato emozioni che poi nessun altro in quello sport è riuscito a farmi vivere. 
L’amico vero è colui che ti sta vicino nel momento del bisogno, che ti offre un consiglio disinteressato, che ti vuole bene a prescindere. 

Non tutti i campioni per fortuna si sono persi, ma tanti di quelli che non ce l’hanno fatta erano persone generose, forse troppo, fragili, profondamente umane, soprattutto nel sacrificio e nella sofferenza. E con pochi amici veri. 

Oggi un uomo se ne va prematuramente, avendo buttato parte della sua vita, dei suoi affetti ed anche della sua carriera che avrebbe potuto essere assai più radiosa rispetto quanto già non lo sia stata.

Marco se andò ancora più tristemente, ancora più solo, forse ancora più spinto giù nel burrone. 
Diego non ne aveva bisogno, ma la morte prematura ne accrescerà il mito e la sregolatezza, lo renderà ancora più genio del calcio. 

Marco non avrà e non ha avuto neanche questo. Non lo avevano piegato infortuni terribili. Scalava le montagne come nessuno, perché forse nessuno sapeva soffrire come lui. Credo oggi sempre di più che a piegargli le gambe sia stata la montagna dell’ingiustizia. 
Morto solo, abbandonato da tutti ed oggi quasi dimenticato. 

Caro Marco, non te lo meritavi. E soprattutto non meritavi che nessuno avesse il coraggio e la voglia di capire come fosse realmente andata.   
E scusate se nel giorno di Diego ho forse parlato più di Marco. 

Ma credo e spero che lassù sarà il primo ad andargli incontro.

Enrico Michetti