Francia, Spagna, Italia, Regno Unito, Colombia, Messico, Panama, Ecuador. È la fetta di mondo non indifferente che ha fatto peggio della Svezia nella gestione del coronavirus. In questo lungo elenco di nazioni, i morti da Covid per milione di abitanti superano gli standard svedesi, nonostante spesso si parli di Svezia come modello sconsigliabile da imitare.

Proteggere i vulnerabili e lasciare in libertà le categorie meno a rischio non sembra convincere la stragrande maggioranza dei paesi europei, ma secondo chi ci vive, il modo in cui è raccontato lo Stato svedese nelle altre nazioni non rappresenta proprio tutta la verità.
Non si tratta ad esempio di negazionismo secondo la psichiatra Martina D’Orazio, che ha raccontato a ‘Un Giorno Speciale’ come il Governo svedese si sia raccomandato fin dall’inizio coi cittadini di rispettare le regole igieniche ed evitare assembramenti.

Ma allora cosa distingue la tanto discussa Svezia dagli altri Stati? Il primato della Costituzione sulle norme igienico-sanitarie che invece in molte nazioni europee la fanno da padrone, spesso accantonando diversi diritti basilari.
Ecco la testimonianza della Dott.ssa D’Orazio ai microfoni di Fabio Duranti e Francesco Vergovich.

Cosa ha funzionato in Svezia? Io penso che in primis abbia funzionato la gestione razionale del Covid-19, cioè aver pianificato una gestione del Covid sulla base di quello che realmente è il Covid: un virus che nell’80% dei casi non dà alcun tipo di sintomo, nel 15% dei casi sintomatologia influenzale e soltanto nel 5% dei casi accesso in ospedale per eventuali cure.
Partendo quindi da questo presupposto e considerando il target delle persone che si ammalano. il Governo e il Ministero della Salute hanno fatto una pianificazione sul lungo periodo.

È stato chiaro fin dall’inizio che il problema non si sarebbe estinto nel giro di qualche mese, ma il mondo ci si sarebbe dovuto confrontare per almeno due anni. Quindi ora stiamo assistendo al classico effetto fisarmonica apri-chiudi che la Svezia ha voluto scongiurare fin dall’inizio, proprio perché in un mondo senza frontiere è impossibile pensare di poter chiudere il virus fuori casa, di poterci giocare a nascondino e di fargli una guerra. Il virus è tra di noi.

È stato altresì chiaro che i morti per Covid sono soltanto la punta di un iceberg e quello che noi stiamo vedendo adesso è quello che ancora non si riesce a vedere fino in fondo è la base di questo iceberg: le morti sommerse. Sia quelle concrete che quelle indirette da Covid, quindi tutte le altre patologie rimaste in secondo piano. Accade nei Paesi che hanno fatto il lockdown e che non hanno fatto ricorso a un potenziamento della sanità.
Poi chiaramente anche in Svezia c’è stata l’emergenza, ma ci si è anche concentrati sulle morti simboliche e sul peso dell’impoverimento dell’economia.

In Svezia si è cercato di proteggere le categorie a rischio. Non dimentichiamo che noi italiani abbiamo sul territorio nazionale il 40% dei morti nelle case di riposo, ma questo non vuol dire che si sia andati incontro a una moria di anziani. Questo non ha alcun significato a fini statistici, perché se noi andiamo a confrontare la curva della mortalità del 2020 in Svezia e in Italia è in linea di massima sovrapponibile alle curve di mortalità degli anni precedenti. Per cui è passato anche questo concetto errato: che il Covid sia un virus mortale per tutti, quando non lo è.

Nel mondo noi abbiamo 50 milioni di positivi e un milione di morti: questo numero bruto non giustifica in alcun modo la psicosi collettiva che si è sviluppata al livello mondiale. Qui non si tratta solo di un discorso tra Italia e Svezia, tra chi fa meglio e chi fa peggio, ma del fatto che è un virus che ha impattato in modo non significativo per quanto riguarda tutte le società“.


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