Si chiama greenwashing e non è altro che una strategia comunicativa sempre più utilizzata dalle aziende produttrici di vari beni. Il neologismo nasce dall’unione di due termini della lingua inglese: “green” e “washing”. I due termini tradotti significano “verde” e “lavare”: ma il loro senso nell’unione cambia, e si riferisce al “lavaggio del cervello pubblicitario” che si basa sulla sensibilità sempre più crescente dei consumatori al tema della salvaguardia dell’ambiente.

La parola greenwashing compare per la prima volta già negli anni Ottanta; fu Jay Westerveld a pronunciarla riferendosi alla pratica falsamente ambientalista di certe catene alberghiere statunitensi. Da allora, se n’è fatto un largo uso, e il suo senso si è allargato. Perché sono soprattutto le multinazionali oggi ad impiegare la loro presunta attenzione all’ambiente per incrementare le vendite. In special modo negli ultimi tempi, durante i quali l’interesse nei confronti delle tematiche ambientali, da parte dell’opinione pubblica, è notevolmente cresciuta.

Avere una coscienza ambientalista è un punto di valore; si parla sempre più di riscaldamento globale, inquinamento, riduzione dell’impiego di materiali plastici, anche grazie a tanti movimenti nati appositamente per denunciare lo stato di deturpamento terrestre e per promuovere un maggior rispetto verso il pianeta, che spetterebbe a tutta la “filiera del consumo”, dalle aziende ai consumatori.

A lanciare la “bomba” di recente è stata l’associazione ambientalista Greenpeace, che non ha temuto di denunciare come il greenwashing sarebbe un modo attraverso il quale i grandi produttori accontentano i consumatori “green”, ma senza fare realmente nulla per ridurre l’impatto delle loro industrie sull’ambiente.

Alcuni dei comportamenti adottati dalle multinazionali sembrerebbero andare nella direzione giusta, ma in realtà sono soltanto illusioni spacciate dalla tv, al web, fino agli scaffali dei supermercati. Sostituire il proprio packaging in plastica con la carta, ad esempio, rappresenta una soluzione solo parziale e non un’idea innovativa, dal momento che un ancor più vasto uso di questo materiale riciclabile penalizza le aree verdi del pianeta. E le foreste gestite responsabilmente, secondo Greenpeace, non sarebbero sufficienti rispetto alla domanda globale di carta crescente da parte del mercato. Inoltre, è noto da diversi anni che l’ottenimento di carta riciclata di qualità è un processo per niente semplice. E il problema non riguarda solo il mondo del food.

La verità è che siamo giunti in un’epoca storica in cui il mondo necessita di essere ripensato: occorre trovare soluzioni alternative concrete per ogni ambito produttivo, se si vuole davvero salvaguardare gli ecosistemi del pianeta. Può essere utile, intanto, per il consumatore che voglia responsabilizzarsi, seguire le iniziative di organismi come il Movimento Difesa del Cittadino o di Legambiente o ancora canali istituzionali come il Ministero dell’Ambiente. Un ottimo riferimento è anche il sito dell’Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Impariamo a non lasciarci ingannare da confezioni accattivanti, dalle etichette che parlano un finto linguaggio green e dagli spot che decantano un “impegno” che si traduce invece al ricorso di “soluzioni di sempre”, non più adatte alla realtà globale in cui viviamo attualmente.

Fonte: Prodigus.it