Se ci sono delle storie che mi affascinano da sempre, sono quelle che riguardano la vita e le opere di personaggi dimenticati, talvolta quasi del tutto sconosciuti ai più. Sarà anche perché rifletto spesso su quanto, dall’inizio della storia dell’uomo, e sempre più arrivando ai nostri giorni, la parola “fama” assuma un significato “relativo” a molte altre variabili, riferite sia alla persona coinvolta che all’ambiente che la circonda.
Cos’è poi la fama? E’ quella caratteristica umana legata ad un successo terreno che fa sì che l’operato di valorosi individui, messo in atto nei più svariati settori e modi, dagli artisti come dagli scienziati, attraverso invenzioni, imprese, innovazioni e contributi documentali lasciati in eredità all’umanità intera, porti il loro nome a riecheggiare nella storia.

Ma quali sono gli “ingredienti”, per tornare in tema gastronomico, di questa “fama”? Sono le pure e semplici, reali e speciali capacità di un essere umano? Oppure queste si intrecciano con altre conditio sine qua non, dalla scaltrezza allo status sociale, fino al possedere migliori capacità di comunicazione (compresa l’omissione di alcuni fondamentali dettagli di sé), nonché i “contatti giusti”? E’ probabile che questa riflessione ricondurrà la vostra mente verso storie più moderne che antiche: ma non bisogna dimenticare che “la storia si ripete”, modificandosi certo in alcuni connotati nel tempo, ma senza particolare variazione dei comportamenti umani e della morale finale della storia stessa (che questa volta ho scelto di riportare non in coda ma in testa alla storia stessa).
Ma veniamo al dunque, perché l’intento di questo articolo, premessa a parte, è quello di farvi conoscere ancora una personalità della nostra impareggiabile cucina italiana, ovvero il signor Teofilo Barla. Il volume che mi ha portato a fare la sua “letteraria” conoscenza (che cito come fondamentale fonte bibliografica al termine) si apre identificandolo come un “fantasma” della nostra storia gastronomica nazionale: se ne comprende il perché analizzandone sia il vissuto che il triste destino, ma questi al contempo risveglieranno sotto i nostri occhi l’essenza pura, modesta e sincera di un cuoco che visse 200 anni fa, autore di un’opera che sarebbe stata destinata all’oblio se un giorno del 2004 Bruno Armanno Armanni non ne avesse acquistata una delle rare copie ancora circolanti, forse proprio l’ultima reperibile, presso uno stand dedicato alla vendita di libri usati presso la Fiera di Milano, per poi scegliere di trascrivere e commentare il testo disponibile oggigiorno per tutti noi in una nuova pubblicazione.

Teofilo Barla nacque nel quartiere di San Rocco ad Asti nel 1796, rimanendo orfano del padre alla tenera età di 2 anni. La madre Margherita lo crebbe con amore (tanto che il figlio scambiò con lei numerose lettere nell’arco della vita) fino all’età di 14 anni, quando il Barla si distaccò dall’ambiente familiare grazie ad una nuova conoscenza della madre ormai vedova, tale Filiberto Bodritti, un ufficiale che prestava servizio nel Corpo Reale degli Ingegneri di Casa Savoia. Questi fece del suo meglio affinché l’orfano trovasse impiego presso la Corte Reale, e questo accadde ben presto in quello stesso anno (1810), portando Teofilo a lavorare come guattero presso le cucine reali. Si noti che, a quei tempi, il termine “sguattero” (più arcaicamente guattero) non era affatto dispregiativo: anzi, stava ad identificare uno dei ruoli degli invidiati Ajutanti che avevano la fortuna di essere chiamati a collaborare con il Capo della Cucina della Casa Reale.

Barla lavorò con grande impegno e passione nelle cucine reali per ben 37 anni, servendo diversi regnanti di Casa Savoia e ricevendo nel 1848 – in seguito all’ideazione di una confettura che Carlo Alberto gustò con enorme piacere – l’incarico di Maître Pâtissier et Confiseur Royal. Al contempo, il “supervisore” della preparazione di quella sua ricetta assunse in detta occasione il titolo di Capo Cuoco e Pasticcere delle cucine reali: si trattava del più noto Giovanni Vialardi, suo amico di vecchia data, di 8 anni più giovane di lui, al quale aveva insegnato molto durante i reciproci anni di “gavetta” come Ajutanti. Ma tra i due non pare vi fosse rivalità, a tal punto che il Vialardi fece tutto il possibile per evitare che, nel febbraio 1851, Teofilo venisse declassato nuovamente a guattero a causa di un incidente occorso durante un importante banchetto nel castello di Garessio. Al termine di una battuta di caccia condotta in prima persona da Vittorio Emanuele II con una schiera di cavalieri ospiti, Barla li fece accomodare a tavola insistendo per fargli degustare la sua polenta concia, ovvero quella che chiamava polenta alla moda della Valle di Aosta. Ma questa fu servita in tavola in modo così maldestro da finire sulle gambe di alcuni commensali (che si auspica fossero ancora nella loro tenuta da cavallerizzi).

Fu nella speranza di rientrare nelle grazie del Re che iniziò a dedicarsi alla sua opera, che si intitolava Il Confetturiere, l’Alchimista, il Cuciniere piemontese di Real Casa Savoia, e, nel 1854, prosciugò i suoi risparmi per dare alla stampa un migliaio di copie del libro. Una volta fra le sue mani, Barla implorò Vittorio Emanuele di poter essere riconfermato nel suo vecchio incarico in cucina: non si sa quali furono le reazioni, salvo l’unica nota, ovvero la decisione di Casa Savoia di mandare al rogo un centinaio di copie che Barla aveva destinato alla Biblioteca reale. Si pensa che questo atto fu dovuto alla menzione nel libro di diversi dettagli “privati” di corte, tra cui alcune esplicite menzioni di Barla degli adulteri del Re.

Del resto delle copie, ad eccezione di quella ritrovata dall’Armanni, non si ha traccia certa, perché pare la maggior parte restarono invendute e conservate nella dimora dello stesso Barla, date anch’esse alle fiamme alcuni decenni dopo il loro ritrovamento, questa volta a causa di muffe e insetti che furono responsabili negli anni del forte deterioramento dei numerosi volumi trovati nascosti sotto il pavimento.
Nel medesimo anno 1854 però, Giovanni Vialardi, in tutta probabilità all’insaputa di Barla (che nel frattempo dedicava la sua opera di 100 ricette suddivise in tre tomi anche all’amico e non solo al regnante, come si evince dalla trascrizione della prima pagina introduttiva), pubblicò un libro dai contenuti similari, ma più vasti e innovativi (Trattato di Cucina, Pasticceria moderna, Credenza e relativa Confettureria). Il suo Trattato conteneva infatti ben 2.000 ricette relative alle terre del Regno di Sardegna (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Sardegna, Nizza), e si faceva forte anche di altre novità del tempo, ovvero l’indicazione per la prima volta in cucina di pesi e misure espressi secondo il sistema metrico decimale (più moderno in quanto adottato dai Savoia nel 1845, ndr), assieme all’inserimento di disegni fatti di suo pugno, riguardanti l’illustrazione di coreografiche pietanze nonché degli indispensabili strumenti di cucina di un cuoco dell’epoca.

Complici l’insuccesso della sua opera agli occhi del Re e l’offuscamento della sua fama dato anche dal successo del Trattato del Vialardi, Teofilo Barla – già noto come personaggio riservato e solitario – divenne abulico, indolente e litigioso (come ammise lui stesso nella corrispondenza epistolare con la madre). Questo comportamento gli fu “professionalmente fatale”: la Casa Reale lo declassò ancora, relegandolo al ruolo di stalliere di lettiera presso la Reale Palazzina di Caccia di Stupinigi, e conferendogli ovviamente una paga ancor più inferiore, che lo obbligò ad affrontare con difficoltà una vita nuova e completamente diversa dal suo passato fatto di profumi e alchimie in cucina. Fu per questo che iniziò a praticare la pesca di frodo alla carpa (molto diffusa ai tempi) per poter integrare il proprio stipendio.

E il 29 agosto del 1872, il destino che portò questa stessa attività alla morte di suo padre quando era ancora bambino, fu decisivo anche per lui: colto in flagranza di reato da due carabinieri reali, anziché arrendersi subito, quel Teofilo Barla rammaricato della sua intera esistenza si lanciò in una furibonda colluttazione con le forze dell’ordine, che lo vide cadere sconfitto nelle acque del fiume Sangone e perire annegato.

Il caso volle che, nello stesso giorno, si spense serenamente nella sua casa, ricco, famoso e attorniato dai numerosi figli e familiari, Giovanni Vialardi. Pare che solo l’opera di Barla lasci spazio anche alla reale storia di Vialardi in Casa Savoia: nelle sue “pericolose verità” contenute, Barla rivela che anche il Vialardi fu declassato dopo di lui per ordine di Vittorio Emanuele II, causa una sua affermazione che il regnante non ritese consona al ruolo di Capo delle cucine che rivestiva. Probabile motivo che lo spinse a ritirarsi a vita privata già diverso tempo prima, non appena cinquantenne, forse proprio per uscire di scena “senza far rumore” e “con stile”, ovvero evitando che si sapesse la verità sui suoi ultimi giorni a Casa Savoia per non destare nell’opinione pubblica quello stesso scalpore che fu fatale, invece, al successo del suo vecchio grande amico Teofilo.

La trascrizione dell’opera di Teofilo Barla, ancora e forse soprattutto oggi, merita davvero di essere letta. Perché accanto alle preziose ricette (che vengono descritte sì con arcaiche terminologie e misure, ma nella particolarità di essere in duplice versione, ovvero una ricetta “ordinaria” e una “sublime” per ciascuna preparazione – ove con “sublime” Barla si riferisce all’aggiunta di erbe e spezie con effetto afrodisiaco o addirittura psicotropo) tra le sue pagine, dall’introduzione ai commenti alle ricette stesse, si evince un amore incondizionato per il suo mestiere, che ci fa riuscire persino ad immaginare di conoscerlo di persona per l’umanità che dimostra, nonché per i concetti estremamente profondi che avrebbe voluto tanto trasmettere già ai lettori dei suoi tempi. Un’opera culinaria speciale perché in essa si denunciano addirittura le ingiustizie, mettendo nero su bianco i nominativi di soggetti malvagi che ruotavano intorno alla sua vita, Il tutto con il cuore di colui che, ancor prima che come cuoco, sarà ricordato dalle sue stesse pagine come persona pura, umile, ma soprattutto onesta e bramosa di verità.

Note bibliografiche

T. Barla, Il confetturiere, l’alchimista, il cuciniere piemontese di Real Casa Savoia – a cura di Giancarlo Roversi (e Bruno Armanno Armanni), Arnaldo Forni Editore 2011
Fonte: Prodigus.it

Fonte: prodigus.it