…Quelli del più Europa? – Parte I

Parte I

Rimane un’ultima soluzione che potrebbe dare, secondo alcuni studiosi, dei risultati ancora più interessanti dell’uscita dall’eurozona: si tratta della monetizzazione del debito degli stati attraverso la Bce. Questa opzione prevede che la Bce finanzi a tassi molto bassi, 0.5-1%, non solo il deficit ma anche parte del debito accumulato dagli stati, acquistando direttamente le obbligazioni emesse dai rispettivi tesori, ponendo così termine alla virulenza della crisi e ristabilendo il meccanismo degli anticipi della banca centrale al tesoro pubblico nell’ambito europeo. Tale finanziamento consentirebbe agli stati di riscattare una quota del loro debito e contemporaneamente finanziare una parte del deficit.

Questo sistema è diverso da quello applicato dalla Bce, la quale si accontenta di ricomprare i titoli che sono stati precedentemente acquistati dalle banche. In questo modo fornisce liquidità alle banche, risollevandole, ed esercita una pressione verso il basso sui tassi d’interesse. Questi effetti non sono trascurabili, in quanto la liquidità fornita ad un tasso molto basso ha consentito alle banche di far fronte alla rarefazione del credito interbancario, mentre l’azione sui tassi di interesse ha permesso di mantenere, fino al 2011, i tassi a dieci anni pagati dalla Spagna e dall’Italia al di sotto del 6%. Tuttavia, sono tassi molto elevati visto che la Bce presta alle banche dall’1 all’1.5%.

Il processo utilizzato fino ad oggi ha sortito degli effetti, ma limitati, in quanto ha rallentato il ritmo con il quale la crisi si è sviluppata, ma in modo insufficiente per poterla arrestare. Perciò, l’equivalente di un meccanismo di anticipo ai tesori pubblici dell’eurozona da parte della Bce si impone come extrema ratio, poiché alleggerirebbe la pressione del debito e porrebbe l’eurozona fuori dalla tirannide dei mercati e delle agenzie di rating. Dal punto di vista dell’analisi di Sapir si risolverebbe in parte il problema del debito accumulato e gran parte di quello futuro, il tutto restituendo un rilancio economico all’eurozona con un tasso di cambio di 1euro per 1.20 dollari. Naturalmente i problemi strutturali non verrebbero affatto risolti, una politica di creazione monetaria non può sostituire una politica strutturale, come hanno sperimentato proprio gli Usa che dopo una seria di quantitative easing non sono ancora riusciti a rilanciare l’economia in maniera duratura. Successivamente, come suggerisce lo studioso francese, si potrebbe passare dal sistema fondato sul principio di una moneta unica a quello di una moneta comune. I vantaggi sarebbero molti: 

  • aiutare gli stati nella gestione dei loro debiti; 
  • consistente svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, ridando una boccata d’ossigeno a numerose economie; 
  • limitazione dello shock sui sistemi bancari. 

Presenterebbe, quindi, i vantaggi di un’uscita e una svalutazione, senza però averne gli inconvenienti. Tuttavia, essa pone un problema di costituzionalità per la Germania che ha accettato il passaggio dal marco all’euro solo nella misura in cui il principio di stabilità dei prezzi sarebbe rimasto l’obiettivo principale della Bce, mentre quest’ipotesi impone proprio una nuova formulazione dello statuto della Bce. La possibilità che una tale soluzione possa essere raggiunta appare dunque politicamente ridotta. Ignorando le opposizione della Germania, si può difendere l’idea di un’azione unilaterale di uno o più paesi, che decidono di costringere le loro banche centrali a sostenere direttamente i tesori pubblici, ma ciò significherebbe in realtà far saltare l’eurozona.

Ancora una volta possiamo notare quale sia il livello di responsabilità dei nostri governanti politici nei confronti della crisi, l’opposizione riguarda, in particolare, il rifiuto da parte dei paesi del Nord di pagare per quelli del Sud. Patrick Artus riassume in modo chiaro lo stato delle cose dal punto di vista economico quando scrive che delle tre soluzioni teoricamente possibili per assicurare l’equilibrio dell’eurozona, la prima, ossia il Nord presta al Sud, non è più realizzabile, la seconda, la creazioni d’istituzioni federali, non corrisponde agli attuali ritmi della crisi e la terza, la compressione della domanda interna dei paesi indebitati sino al riassorbimento dei loro deficit, non è praticabile. 

Il divario tra le soluzioni teoricamente possibili e ciò che è politicamente realizzabile ha raggiunto il limite e, in questo caso, calza a pennello un’espressione usata dall’economista americano Roubini, a parere del quale i nostri governi hanno esaurito le loro munizioni politiche. Nella letteratura economica vi sono due riflessioni, unite a una forte critica sul perché la Germania si oppone a tutte queste proposte: la prima proviene da Biadiale e Triangali, i quali sostengono che ciò che maggiormente frena i paesi economicamente più forti dell’eurozona ad accettare forme di condivisione del debito e di solidarietà fiscale, non è tanto l’assenza di volontà di compartecipare ai costi di finanziamento dei paesi deboli, bensì il timore di innescare meccanismi di azzardo morale da parte dei ceti dirigenti dei paesi deboli.

Si può definire azzardo morale ciò che avviene laddove gli operatori economici possono sentirsi incentivati a intraprendere comportamenti eccessivamente rischiosi, qualora essi possano contare su una significativa probabilità che i costi associati a un eventuale esito negativo delle loro azioni ricadano sulla collettività o su altri operatori. È una definizione che rappresenta la situazione che si creerebbe nell’eurozona nel caso la Bce divenisse lender of last resort, o se venisse implementata qualsiasi altra forma di trasferimento di ricchezza dai paesi forti a quelli deboli. In quel caso, infatti, i Piigs saprebbero che i costi del loro finanziamento sarebbero distribuiti sull’intera zona dell’euro e quindi sarebbero disincentivati a realizzare le riforme nel mondo del lavoro, del tessuto sociale e degli equilibri costituzionali. Gli autori continuano affermando che la Germania vuole essere messa a riparo dai rischi che corrono i paesi più forti, prima di rendersi disponibile a discutere di qualsiasi proposta riguardante la Bce o le eurobbligazioni.

Ed è per questo che l’Unione europea è stata rifondata tramite il Fiscal Compact prevedendo, appunto, l’accettazione di una totale perdita di sovranità sulle materie economiche e sociali da parte degli stati membri. Onde evitare che essi possano emettere quantità crescenti di titoli di debito vengono rinforzati i vincoli alla spesa pubblica e le sanzioni in caso di sforamento dei parametri. Così i due studiosi arrivano ad affermare che l’Unione europea svela, in questo modo, il suo volto anti-democratico: il suo obiettivo non può essere realizzato da governi democratici in quanto non riscuoterebbero il consenso necessario per scelte così anti-popolari, per questo la tecnocrazia europea ha sostituito i governi dei paesi più deboli con uomini tecnici.

Il meccanismo del Fiscal Compact è il seguente: gli stati deboli saranno sempre più indebitati e per restare nell’euro non potranno che chiedere aiuti europei, in cambio dei quali dovranno rispettare tutto ciò che impone la Troika, costituita da Commissione europea, Bce e Fmi. In conclusione gli eurobonds e la riforma della Bce non risolvono gli squilibri di inflazione e competitività fra i paesi dell’euro, bensì mirano ad introdurre elementi che potrebbero avere effetti di omogeneità, spostando parte della ricchezza dai paesi più forti a quelli più deboli. Tutto ciò può essere possibile solo se gli stati con i loro governi si spogliano della loro sovranità, delegando il potere decisionale ad un governo dell’Unione europea capace di imporre qualsiasi tipo di politica economica e sociale. 

Roberta Novacco


Leggi anche: