Negli articoli precedenti si sono esaminate le cause della crisi che hanno e che investono tutt’ora l’eurozona. Analizziamo le conseguenze delle scelte prese dalle élite europee, approfondendo il Fiscal Compact. Esso rappresenta un irrigidimento del modello economico adottato dalla governance europea, teso alla disciplina del bilancio mediante il raggiungimento del pareggio fra entrate fiscali e uscite di spesa e la diminuzione pianificata.

Il termine non è altro che il nome per definire il Patto di bilancio europeo o il Trattato sulla stabilità, un accordo approvato con un Trattato Internazionale il 2 marzo 2012 da 25 dei 28 stati membri dell’Unione europea, ad eccezione del Regno Unito, Repubblica Ceca e Croazia (al tempo della stipulazione del trattato la Croazia non faceva ancora parte dell’Ue). È entrato in vigore il 1° gennaio 2013 modificando le norme previste dall’originario Trattato di Maastricht. Il Fiscal Compact contiene una serie di regole, chiamate “regole d’oro” e vincolanti per l’equilibrio di bilancio, indipendentemente dal fatto di aver adottato la moneta unica, ma in ragione della semplice appartenenza all’Unione europea. Le principali riforme riguardano:

  • la rigidità dei vincoli relativi ai rapporti deficit/Pil e debito/Pil che non potranno più essere sforati. In particolare, gli stati devono garantire: 1) un rapporto debito/Pil inferiore al 60% 2) l’impegno ad avere un deficit strutturale che non superi lo 0.5% del Pil, 3) un deficit pubblico al di sotto del 3% del Pil;
  • l’obbligo che i bilanci delle amministrazioni pubbliche siano in pareggio o in avanzo. Tale obbligo deve essere inserito nelle Costituzioni degli stati o in leggi di rango uguale;
  • l’emissione di sanzioni automatiche e l’indicazione di misure da adottare obbligatoriamente in caso di sforamento dei parametri o di mancato raggiungimento degli obiettivi fissati per la riduzione del debito;
  • l’obbligo, per gli stati soggetti a procedura per deficit eccessivo, di attuare un programma vincolante sulla politica economica, contenente una descrizione delle riforme strutturali da mettere in atto.
  • il riconoscimento della giurisdizione della Corte di Giustizia Europea sul rispetto di quanto stabilito. La Commissione Europea può portare in giudizio dinnanzi alla Corte qualsiasi stato essa ritenga inadempiente.

Negli Stati Uniti una forma analoga in Costituzione è stato oggetto di fortissimi contrasti, al punto da indurre ben cinque premi Nobel per l’economia a sottoscrivere un appello indirizzato all’allora presidente Barack Obama per ribadire con forza che: “il pareggio di bilancio è una camicia di forza economica e non c’è alcun bisogno di inserirlo in Costituzione. La nostra rappresenta una scelta politica estremamente improvvida, con effetti perversi in caso di recessione. Cercare di raggiungere il pareggio di bilancio è pericoloso perché nei momenti di difficoltà diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto”. Anche Paul Krugman, economista e saggista statunitense vincitore del Premio Nobel per l’economia nel 2008, è stato estremamente critico nei confronti di qualsiasi vincolo di pareggio di bilancio inserito coercitivamente nei dettami costituzionali. Krugman, infatti, temeva che questo genere di provvedimento potesse portare al dissolvimento del concetto di stato sociale, con conseguenti problemi nella gestione democratica di un paese.

Le conseguenze più evidenti dell’irrigidimento del modello economico si sono avute sul mercato del lavoro. Il problema centrale dell’eurozona, infatti, è il recupero di competitività per i paesi che hanno avuto un’inflazione più alta rispetto agli altri partner interni alla moneta unica. La competitività è legata all’inflazione: se, rispetto ai miei partner, i miei prezzi aumentano succede che divento meno competitivo, mentre se diminuiscono accade che posso acquisire più facilmente nuove quote di mercato a scapito di chi offre prezzi maggiori. Una perdita di competitività dovuta all’innalzamento dei prezzi potrebbe essere risolta con la svalutazione del cambio della moneta, ma data l’appartenenza all’euro, i Piigs non possono fare nulla sotto questo aspetto. Pertanto il riequilibrio dovrebbe avvenire mediante l’aumento dei prezzi nel paese più forte, infatti se è più competitivo le sue merci sono più richieste. Per la legge della domanda e dell’offerta, nel medio periodo, l’aumento della domanda dovrebbe portare all’innalzamento dei prezzi. All’interno dell’eurozona però tale riequilibrio non si è compiuto e il paese più competitivo continua a restare quello con inflazione più bassa, il che ovviamente produce conseguenze rilevanti sulle condizioni di lavoro nei paesi più deboli.

Andiamo a comprendere i motivi della bassa inflazione presente ad esempio in Germania. L’inflazione dipende da molteplici elementi, ma uno dei più importanti è il costo dei fattori produttivi. Nell’ambito dell’aumento di tali costi svolge un ruolo fondamentale l’aumento del costo del lavoro. Mettiamo in relazione il legame fra competitività e dinamiche salariali in Germania, cercando di capire come i ceti dirigenti tedeschi operino una forma di svalutazione competitiva all’interno dell’eurozona. Innanzitutto la Germania, paese economicamente forte, ha ottenuto i suoi successi in termini di bassa inflazione grazie ad una politica di contenimento dei salari reali, mentre nel dibattito italiano spesso si sente dire tutto il contrario. Ma questa obiezione contiene almeno due errori: il primo riguarda la concezione che i salari tedeschi siano più alti rispetto a quelli italiani. Da un’inchiesta si è rilevato che più di 7,6 milioni di lavoratori tedeschi guadagnano al massimo 450 euro al mese, sono i lavoratori scarsamente retribuiti, e anno dopo anno il loro numero aumenta sempre più. Non pagano le tasse, vivono parzialmente con gli aiuti sociali e solo raramente possono aspirare a una normalizzazione del loro rapporto di lavoro. Secondo dati dell’agenzia federale del lavoro alla fine del 2010, il numero degli occupati in questi minijob è aumentato di 1.6 milioni di persone. Significa che un’occupazione su quattro rientra nella categoria delle scarsamente retribuite, per cui la realtà salariale tedesca è più complessa di quanto si creda comunemente in Italia. Perciò, poiché i prezzi della Germania sono cresciuti di meno rispetto a quelli degli altri paesi europei è naturale che essa attrae più acquirenti essendo più competitiva. Ma se cresce la domanda di prodotti tedeschi dovrebbero crescere anche i prezzi rendendo così gli altri paesi euro di nuovo competitivi, ma questo aggiustamento non è stato rilevato.

Perché? Il problema è che quest’ultima, attuando una politica di forte moderazione salariale, non permette che gli effetti della legge della domanda e dell’offerta operino i necessari riequilibri all’interno dell’Eurozona. Grazie a tutto ciò la Germania riesce a impedire l’aumento dei propri prezzi ma in questo modo aumenta inesorabilmente i problemi dei partner economicamente più deboli dell’euro, infatti i dati della loro bilancia dei pagamenti peggiorano. Con basse prospettive di crescita unite all’impossibilità di svalutare la propria moneta e ad un’inflazione sempre più alta rispetto ai paesi più forti, questi stati iniziano ad avere sempre più spesso difficoltà a vendere i propri titoli di Stato. I mercati, infatti, cominciano a considerarli potenzialmente insolventi poiché potrebbero non riuscire a recuperare la competitività perduta e iniziano a diminuire anche gli acquisti. Così, per finanziarsi, questi paesi devono accordare interessi sempre maggiori ed entrano nella spirale della crisi, in quanto aumenta lo spread fra i titoli dei Piigs e quelli tedeschi.

Acquisiti questi concetti, la ripresa economica dell’Italia è legata indissolubilmente a quel Trattato intergovernativo chiamato Fiscal Compact che restringe ancor di più i diritti dei lavoratori. Constatata la natura ancora incompiuta dell’Unione europea, tutti i governi dell’area euro hanno perseguito pesanti politiche di austerità nel disperato tentativo di rientrare nei parametri previsti, infliggendo a tutte le economie e ai propri cittadini sacrifici oltre misura, in nome di norme illegittime. Forse allora sarebbe opportuno appoggiare l’idea avanzata qualche mese fa dall’attuale Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il quale ha affermato di voler rivedere le regole europee, poiché, a parer suo, vennero approvate in fretta senza rispondere all’esigenza di far fronte al veloce rallentamento. Il titolare del Mef continua sostenendo che la soluzione ai momenti di crisi non è il non avere regole bensì capire che nelle politiche economiche i tecnicismi non dovrebbero avere lo stesso peso politico delle ragioni fondamentali del cooperare tra nazioni. Non si ricostruisce la fiducia così, evidenzia Tria, prima si deve guardare perché stiamo insieme e poi guardare se l’architettura risponde efficacemente. Evidentemente l’Italia all’interno del progetto europeo necessita di giocare un ruolo più decisivo per una cooperazione sostenibile.

Roberta Novacco