Dopo otto anni non si sente più parlare della situazione greca. Gli eventi del 2011 hanno dimostrato come le tensioni interne all’eurozona hanno raggiunto un punto di rottura. Nell’autunno dello stesso anno molti governi si sono mostrati riluttanti nel ratificare il piano di salvataggio della Grecia. Bisogna osservare che tale piano, una volta messo in atto, non ha risolto nulla, il paese non si è dimostrato in grado di restituire le somme che gli sono state prestate e non è riuscito a ritrovare la competitività che aveva perso.

Tuttavia ogni tentativo di respingere una ristrutturazione, che all’epoca appariva ineluttabile se si voleva evitare un default, dimostrava che il suo costo sarebbe stato elevatissimo. Ciò a cui abbiamo assistito non era più una crisi di governance, bensì una crisi esistenziale. Se accettiamo questo punto di vista, la mancanza di un consenso politico in Grecia sulle nuove misure di austerità rispecchiava la mancanza di consenso a livello europeo.

Dal 2011 in poi queste misure sono state continuamente rinforzate, andando ad incidere oggi direttamente sul livello di vita della maggioranza della popolazione che si trova di fronte a un continuo e progressivo impoverimento. Il tasso di disoccupazione, nel marzo 2015, si attestava intorno al 25,6%, cifre che si ritrovano solo negli anni Trenta, gli anni della Grande Depressione. La mancanza di prospettiva di crescita ha portato ad un arresto degli investimenti che ha visto come conseguenza il fatto che le imprese hanno cercato di convertire i loro averi in moneta liquida per trasferirli all’estero nelle banche inglesi, tedesche o svizzere. Le continue fughe di capitali hanno reso la situazione ancora più critica. 

La crisi dell’euro

La mancanza di consenso politico può spiegare l’estendersi a macchia d’olio di conflitti sociali, le proteste si sono moltiplicate nei paesi minacciati dalla crisi, si pensi alle rivolte in Spagna con il movimento degli “indignados” nel maggio 2011, ma anche in Portogallo e in Italia dove nel corso di grandi manifestazioni, per la prima volta, si sono sentiti slogan che attaccavano direttamente l’Europa. Il processo di contagio è ormai avviato ed è spuntato quella che l’economo francese Sapir ha definito una stanchezza dell’euro, che riflette l’accumularsi nel tempo di problemi irrisolti manifestandosi attraverso una crescente difficoltà nel trovare soluzioni efficaci. Egli, infatti, sostiene che tutto ciò porterà con sé la fine dell’euro, in maniera non consapevole, ma non per questo meno reale.

La situazione della Grecia risultava complicata anche per la dimensione del suo debito che, nel marzo 2015, si aggirava intorno ai 312 miliardi di euro pari a 180% del Pil e non tutto il debito era quotato in titoli, di questi solo 81,5 miliardi. La condizione non era sostenibile né per la Grecia, non potendo infliggersi un’austerità così drastica, né per l’Europa che non poteva continuare a praticarle iniezioni di liquidità, senza correre il rischio di vedersi richiedere lo stesso trattamento da parte di altri paesi. 

A seguito dei diversi piani di aiuti internazionali che hanno evitato la bancarotta della Grecia, oggi i conti economici sono effettivamente migliorati, ma quale prezzo ha dovuto pagare la popolazione? Dal 2011, anno spartiacque della storia economica moderna greca, i conti del Paese non sono mai stati così incoraggianti e permettono alla Grecia di poter guardare al futuro con occhi ottimisti. È realmente così?

Una tragica realtà

L’avanzo nei primi nove mesi del 2017 è stato del 2,2% superiore a quello imposto dall’Ue. Il Pil è cresciuto dell’1,9% nel 2017 e si prevede un suo aumento negli anni successivi. Dietro alla promettente visione economica, in cui si sottolinea una crescita esponenziale di esportazioni, di produzione industriale interna e di turismo, si cela una tragica realtà. 

Rispetto al 2010, il potere d’acquisto della popolazione greca è calato di circa il 29%, una concausa dovuta a diversi fattori, in primis una maggiore tassazione sui redditi medi, tagli alle pensioni superiori ai 3.000 euro e una disoccupazione che ha toccato livelli più elevati di quelli raggiunti nel 2011, che variano dal 23% dei lavoratori adulti al 40% dei giovani. Si pensi solo che ben il 22,2% della popolazione greca ha vere e proprie difficoltà a soddisfare i bisogni di prima necessità come ilpagamento delle bollette o del mutuo. Questa situazione ha condotto moltissime famiglie ad aggrapparsi ad un reddito monoparentale. Così Tsipras si è trovato con le mani legate, dovendo cedere a misure di austerity, che si traducevano nel rispetto delle regole imposte all’inizio del percorso di risanamento economico del paese.

Nonostante la ripresa, la crisi sarà davvero dietro l’angolo quando anche il mercato del lavoro riprenderà a correre. Si stima che ci vorranno più di dieci anni per far tornare la Grecia ai livelli precedenti la crisi. Difficile poter immaginare quali saranno i risultati elettorali, scenari sociali di questo genere creano facilmente forme di imprevedibilità difficili da gestire. L’appeal elettorale di partiti populisti ed estremisti è sempre molto probabile e la storia recente di gran parte dell’Europa ne ha dato dimostrazione.

La paralisi politica

Da questo scenario non si può non essere colpiti dalla paralisi politica che ha travolto le élite europee a partire dal 2010. Questa situazione ha portato a parlare di una crisi di governance nell’eurozona, ma in questo modo non si è fatto altro che confondere l’attuale mancanza di istituzioni adeguate per governare la crisi con l’incapacità delle personalità politiche di reagire in tempo. Ed è questa mancanza di reazione fino all’ultimo momento che domina la scena ed è ampiamente responsabile della crisi.

Diversi economisti riconoscono che l’attuale status quo europeo non è più credibile né difendibile, esso ci sta portando verso un’austerità senza fine ed a una depressione economica di dimensioni sconosciute. Sembra che si stia realizzando il classico fenomeno caratterizzante le crisi finanziarie, ciò che Leon Festinger definì“dissonanza cognitiva”, le cui conseguenze sulla capacità degli attori di prendere decisioni sono notevoli. Tale concetto viene ripreso nell’ambito della psicologia sociale ed esprime il divario che si può presentare tra la realtà e la sua stessa rappresentazione, ossia la dissonanza si riflette su un senso di smarrimento e di difficoltà di agire da parte degli attori.

Il fenomeno si sta rivelando in tutta la sua estensione: si manifesta sotto forma di sorpresa quando si verifica un evento inatteso e ha perciò un ruolo nel determinare il comportamento degli attori che, all’inizio, possono negare la dissonanza rifiutandosi di percepire il segnale. Essi possono anche cercare di ridurre la dissonanza cognitiva modificando la loro percezione del mondo e rimettendone in discussione le sue certezze e regole. Avranno comunque bisogno di tempo per attuarle, e più a lungo sarà negata la realtà, più difficile sarà il cambiamento che consentirebbe loro di far fronte agli eventi che contraddicono le vecchie rappresentazioni.

Qui si può ritrovare un fenomeno che era stato osservato durante la crisi finanziaria del 2008: in tutte le crisi economiche arriva il momento in cui tutto ciò che era ritenuto impossibile si rivela in realtà possibile. Ma se non si combatte tutto ciò, la dissonanza porta alla paralisi della decisione e al crollo della volontà.