Monumento? No, non è questo il termine giusto, anche perché che lo sia lo sappiamo da anni, non avevamo bisogno di ulteriori prove a conforto del concetto.
Monumentale: se il sostantivo è scontato, come detto sopra, l’aggettivo è invece indispensabile, stavolta. Non c’entra la prestazione personale, che è un dato contingente e comunque, nella fattispecie, confortante.

Qui si parla di un aspetto che non ci sorprende ma che è sorprendente al tempo stesso, non vi sembri un paradosso: la Roma è un’altra, con lui e soprattutto con lui fino alla fine, nei frangenti in cui c’è da proteggere ciò in cui non si sperava né si credeva, come se si fosse ormai smarrita l’abitudine anche soltanto di pensarla, una partita vittoriosa e soprattutto conclusa in crescendo. Perché la personalità, che non si compra e nemmeno si vende, in verità, sono pochi a poterla infondere, da singoli, a un gruppo intero. A un gruppo sfiduciato, per giunta.

A Marassi una Roma razionale, anche se inizialmente ancora contratta, ha iniziato a cucire la tela del ribaltamento del più scontato dei pronostici: non quello sulla vittoria della Sampdoria, ritenuta comunque probabile, ma quello sulla sua prestazione, che in molti  – se non tutti – eravamo certi che sarebbe stata titubante, rinunciataria, priva di mordente. Ciò che invece è diventata la Sampdoria, nel corso della ripresa, per merito del palleggio fluido, della gestione razionale della palla, della corsa mirata a ottimizzare la superiorità tecnica che c’è alla base, pur tra mille dispersioni gestionali, fisiche, caratteriali.

Merito soprattutto di chi ha avuto testa per gestire le proprie gambe e in un certo senso quelle degli altri, fino alla fine, per poi riportare al centro della scena, ossia sotto il settore dei propri tifosi, una componente da troppo tempo smarrita: il sorriso. 

Di chi parliamo? Non ci sarebbe neanche bisogno di nominarlo, in effetti non lo abbiamo ancora mai fatto, Daniele De Rossi.