Intervistato da Mariagloria Fontana e Francesco Vergovich ad Affari di Libri, il celebre scrittore ha parlato della sua, ultima opera, Sogni e favole.

William Shakespeare sosteneva che “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” ma, nel caso di “Sogni e favole“, ultima e articolata opera di Emanuele Trevi, più che di visioni oniriche si parla di un ritratto letterario fatto di legami e d’incontri che hanno costellato e formato la vita del celebre scrittore.

Questo libro è anche un omaggio a due grandi ritrattisti, Arturo Patten e Cesare Garboli, che hanno fatto ritratti con due mezzi diversi. Il primo era un californiano, che è diventato un grande fotografo qui in Europa, tra Parigi e Roma, e aveva sviluppato la propria tecnica fotografica a confronto con i grandi maestri del Rinascimento italiano, mentre il secondo era un illustre critico letterario che faceva questa cosa come la faccio io, ossia con le parole. Noi abbiamo una lingua povera rispetto all’enorme varietà del genere umano e siamo caratterizzati per essere ognuno diverso dagli altri” ha spiegato, in apertura, l’autore, invitato questa mattina a parlare del suo libro durante la puntata di “Affari di Libri”.

Sul paragone tra Roma, scenario che riveste anche un ruolo di primo piano all’interno del romanzo, e San Pietroburgo, Trevi ha detto di quest’ultima città che “è più fiera. Ho fatto una comparazione tra un luogo particolarmente buio del centro storico che è via dei Cappellari, e il quartiere di Delitto e castigo di Dostoevskij, dove al centro c’è una casa che è un posto opprimente ancora oggi. Se ambiento una storia è perché per me la memoria funziona così: io cammino per Roma e, quindi, esercito la memoria dentro un’attività che è fisica, un’idea di esistere fin dove si è riusciti a camminare. Nel libro, d’innumerevoli passeggiate ne fingo una“.

E, soffermandosi su una conversazione, presente nel libro, con Cesare Garboli, e sul sonetto di Metastasio che ha ispirato il titolo del suo romanzo, Emanuele Trevi ha raccontato che “lui mi segnalò la poesia di Metastasio sull’illusione teatrale e sulla capacità che ha l’artista di commuoversi delle sue stesse fantasie. Mi disse di scriverci un libro, dandomi lui l’idea. Per questo definisco questo libro una specie di seduta spiritica, perché è un libro che ho sentito come mio, però è nato come un libro per interposta persona, un libro di un amico più anziano che diceva a una persona che era il suo allievo di portare a termine il lavoro. Sul sonetto di Metastasio, devo dire una cosa: è difficile rivitalizzare un testo di questi grandi scrittori passati. La nostra tradizione è fatta di poeti che traduciamo in un italiano moderno, perché la lingua dei classici è molto cambiata. L’evoluzione della lingua è come il mare: in 50 anni, siamo separati da quello che ci precede“.