Si può piangere dopo un gol? Certamente. Per esempio se vale lo scudetto. O, ancora, in una finale di coppa. O, addirittura, per la conquista della coppa del mondo. Le lacrime di Sergej Milinkovic Savic sono arrivate dopo un gol al Cagliari. Non è proprio il massimo ma per il ragazzo di Lleida, el nino de oro per Claudio Lotito, quello è stato il momento della liberazione, il buio oltre la siepe di critiche e di dubbi, il cielo aperto sopra l’Olimpico che, invece, mandava giù ancora e sempre acqua, in questo sghembo dicembre.

Un gol per scoprire lo zucchero della felicità, per gettare nel cestino la malinconia che ha accompagno le esibizioni di questo catalano di nascita ma serbo di sangue fino all’ultima goccia. C’è un aforisma di quel popolo che potrebbe spiegare molte cose e dice: “Il capitano è sempre l’ultimo che abbandona la nave. Aspetta finché gli squali non siano stufi”.

Sergej ha atteso, sulla sua imbarcazione privata, che i pescecani si distraessero tra cenoni e festicciole natalizie e ha messo il suo pacco dono sotto l’albero. Di solito, dopo un gesto del genere, ci si fa beffa degli avversari, nemici, rivali. Si va di pernacchie e linguacce. Sergej ha chinato il capo e ha rigato il viso di quel pianto che non era commozione ma risveglio dall’incubo. E’ esplosa anche la gente laziale che attendeva quell’attimo da una vita e quasi non voleva credere che si fosse realizzato, finalmente. Ora si torni a correre e non a nuotare nell’aria, si torni a dimostrare che il prodigio è verace, genuino, appena offuscato da una fragilità che, in fondo, è umana, segnale di una personalità ancora da completare.

Non bastano, non servono le cartelle pazze di Lotito, i prezzi da Parco della Vittoria del Monopoly con il quale gioca spavaldamente il presidente del club. Contano i fatti e Sergej ha voglia di buttarsi alle spalle i coriandoli bagnati di questi mesi. Lui non era quello e lui non è ancora questo. Il bello deve ancora venire.

Tony Damascelli