Vaccini, studio cruciale riscrive la storia dei morti no vax ▷ Frajese: “Aperto un vaso di pandora”

Uno studio sulla mortalità in Emilia-Romagna tra vaccinati e non vaccinati mostra come i risultati siano stati artefatti.

I dati mentono, ma non in quanto dati in sé. Non si vuole certo dire che la statistica non serva. Quello che invece si vuole evidenziare è però che gli errori esistono anche nei numeri: tutto dipende da dove e come quei numeri vengano prodotti. Uno studio potrebbe dimostrare, ad esempio, che la mortalità sia molto più alta tra i non vaccinati rispetto ai vaccinati. Nell’analisi dei dati per la comunicazione però esistono delle regole di codifica che definiscono cosa si intenda per “vaccinati” o per “non vaccinati”, così da poter trarre conclusioni coerenti e corrette. Una precisazione che molte volte sfugge al lettore – con rischi sull’opinione pubblica clamorosi – ma che fa tutta la differenza del mondo. E’ per questo motivo che quando si parla di studi scientifici, bisognerebbe discutere non solo delle conclusioni, ma anche delle modalità con cui gli autori sono giunti a tali risultati. E’ ciò che dobbiamo fare, ad esempio, sul caso della mortalità citata poco fa.

Lo studio sull’Emilia-Romagna

A novembre su PubMed è stato pubblicato uno studio dal nome: “Classification bias and impact of COVID-19 vaccination on all-cause mortality: the case of the Italian region Emilia-Romagna“. Gli autori (Marco Alessandria, Giovanni Trambusti, Giovanni Maria Malatesta, Panagis Polykretis e Alberto Donzelli) sostengono nello studio di aver individuato un “coding bias”, un errore di classificazione nei dati sulla mortalità post-vaccinazione nella regione Emilia-Romagna. In sostanza, durante la fase di conteggio dei decessi si usava la regola di considerare “non vaccinati” coloro che invece avevano ricevuto la dose, ma che morivano entro 14 giorni dalla somministrazione. I risultati?

Nella fascia 70-79 anni quasi il 37% dei morti classificati come non vaccinati erano in realtà vaccinati recenti, mentre nella fascia 60-69 la percentuale sfiorava il 23%. Anche tra i 50-59 anni il fenomeno superava il 42%. Perché proprio 14 giorni? Si tratta del periodo ritenuto necessario affinché il vaccino diventi efficace. Una scelta metodologica che può essere giustificata per misurare l’efficacia immunologica, ma totalmente inappropriata per la comunicazione dei dati: alimenta infatti nel pubblico la falsa percezione che la mortalità tra chi non aveva fatto l’inoculazione fosse molto più alta di quanto non fosse realmente e, di riflesso, che quella tra i vaccinati fosse molto più bassa.

La classificazione non considerava inoltre che le cause dei decessi in quei 14 giorni potessero essere diverse dal COVID, e includere invece reazioni avverse, patologie pregresse o altre condizioni indipendenti. Una distorsione metodologica che rischia quindi di informare in modo scorretto sui rischi reali e di costruire una narrazione politica su un uso inadeguato dei dati. Un caso non isolato, dato che anche in Gran Bretagna esperti hanno discusso della errata categorizzazione in studi sulla mortalità post vaccinazione.

Ne abbiamo parlato in diretta con il dott. Giovanni Frajese.