Paura, stupore, indignazione, rabbia e, infine, rassegnazione. E’ il volto dello spettatore della tragedia. Di ciascuno dei singoli individui che con lo sguardo rivolto a telefoni, tablet e televisioni assistono, impotenti, alla diretta della catastrofe. E’ quello che è accaduto ieri con la cattedrale di Notre Dame e che accade, sistematicamente, dall’11 settembre del 2001.

Sono le 18:50 di un lunedì sera, a Parigi la cattedrale di Notre Dame, simbolo della Francia, principale luogo di culto della città, uno degli emblemi della civiltà europea, prende fuoco. Da quell’istante tutto il mondo rimane a guardare. Le fiamme divampano, alte e rosse, squarciando, letteralmente, l’ingrigirsi del cielo al crepuscolo. 19:52, un’ora esatta dall’inizio dell’incendio. Arco di tempo sufficiente a far sì che ovunque si sappia dell’accaduto e che tutti adesso siano collegati alla rete. Crolla la guglia, in diretta internazionale.

Ci sarà qualcuno dentro? E’ un attentato? Ma com’è possibile che abbia preso fuoco se è quasi tutta di pietra? Ma non dovrebbe esserci un’attenta manutenzione per questo tipo di monumenti? E’ una cosa terribile! Volevo andarci l’anno prossimo. Ma perché non lo spengono?

Paura, stupore, indignazione, rabbia e, alla fine, rassegnazione

La diretta va avanti. Reti unificate, nazionali e internazionali, telecronaca in più lingue, spiegazioni sommarie e notizie frammentarie. Piano piano si inizia a capire che le condizioni per spegnere l’incendio sono difficilissime, che la cattedrale al suo interno ha (aveva) un fitto reticolo in legno antico, che l’incendio è divampato da un’impalcatura di restauro. Chi è sul posto fa foto e posta video sui social. Chi è lontano fa telefonate per verificare che parenti o conoscenti in vacanza, a lavoro o residenti stiano bene. Tra gli altri inizia un velocissimo botta e risposta di “Hai visto? Hai saputo?”

Tutto il mondo si sente coinvolto. Frustrato, anche se per qualche ora, da un mix di sensazioni diverse. Da un lato il desiderio di agire che, di fronte all’impotenza, si sfoga con la telefonata, con il messaggio o con l’auto-proclamazione a uno di quei perni di diffusione della notizia. Dall’altro il sollievo di non essere vittime dell’accaduto, che si mischia al senso di colpa per non aver tenuto conto della sofferenza altrui. E infine si aggiunge la suspance, dettata dal non sapere come andrà a finire. Un’incognita nuova, se si pensa al fatto che prima le notizie arrivavano sui giornali a distanza di giorni e a fatti già conclusi.

Gli attacchi terroristici

Una dinamica, quella della diretta minuto per minuto, che (ahinoi?) da slogan è diventata reale. Il primo shock fu quello dell’11 settembre. Prima di allora le tecnologie dei dispositivi non si prestavano ancora alla visione in diretta degli accadimenti e, probabilmente, non si sapeva ancora che potessero scatenare reazioni di tali dimensioni.

Da allora abbiamo conosciuto la follia di chi si è ripreso mentre commetteva degli omicidi, come successo esattamente due anni fa, il 17 aprile 2017, negli Stati Uniti. Abbiamo conosciuto il panico e il dolore dei video di chi si trovava in mezzo agli attentati terroristici, dai più recenti di Nuova Zelanda e Strasburgo, ai non troppo lontani di Bataclan e Bruxelles. Siamo stati spettatori di esecuzioni, di minacce, di suicidi, di rivolte.

E se da un lato il desiderio di sapere, il diritto di cronaca, la gara a chi fa più visualizzazioni sembrano farla da padrone nel modo di fare informazione del presente e del prossimo futuro, dall’altro, forse, è necessaria qualche riflessione.

A paura, stupore, indignazione, rabbia e rassegnazione segue sempre, alla fine, il ritorno alla normalità, all’indifferenza.

Stiamo assistendo a un progredire esponenziale della spettacolarizzazione del dolore che, come la migliore delle battaglie tra gladiatori, stupisce, indigna e sgomenta un pubblico che soffre fugacemente e solo di riflesso.

E’ necessario che empatia e partecipazione al dolore collettivo inizino a scontrarsi con il dolore reale delle vittime delle tragedie, delle forze di soccorso e delle famiglie di entrambe le categorie, lasciando buchi neri nella diffusione dell’informazione, se necessario.

Rendere la sofferenza uno spettacolo chiama a sé altra sofferenza, altro dolore, altro sgomento, e sempre e comunque non a discapito di chi un video lo guarda, ma di chi in realtà un video su Facebook non lo pubblica.

Benedetta Intelisano