“Papà, come si fanno le divisioni? Mi aiuti a fare i compiti?” e il padre, in difficoltà, viene “salvato” da un’app su tablet. E’ solo l’ultimo degli spot che presentano in pompa magna un’app per aiutare o – se volete – sostituire certe funzioni cognitive che invece andrebbero allenate, anche in chi non deve fare i compiti.
Questo perché negli ultimi anni la ricerca ha iniziato a mettere in luce alcune conseguenze reali di un’esposizione precoce e prolungata dei bambini a dispositivi digitali. In Italia un’indagine recente evidenzia che fra i 0 e i 6 anni il 61,4% dei bambini usa quotidianamente smartphone o tablet, spesso sin dai primissimi anni di vita.
Secondo studi neuroscientifici e psicologici, un uso intenso e frequente di strumenti digitali può associarsi a effetti negativi su varie funzioni cognitive: attenzione, memoria, funzioni esecutive (come la pianificazione e il controllo degli impulsi), linguaggio e apprendimento. In alcuni casi si rilevano alterazioni nella struttura cerebrale: con un’eccessiva esposizione agli schermi, la materia cerebrale — grigia e bianca — può svilupparsi in modo diverso rispetto a chi ha un’esposizione moderata, con possibili ripercussioni sullo sviluppo cognitivo e linguistico.
Inoltre, un uso prolungato e disattento di questi strumenti può incidere sul sonno, sull’equilibrio emotivo, sulla capacità di regolare impulsi e frustrazioni, di sostenere la concentrazione per tempi lunghi, di sviluppare pienamente creatività e pensiero critico. Quando la tecnologia diventa una “valvola di salvataggio” o una scorciatoia — anche per attività importanti come lo studio — rischiamo di instaurare un’abitudine che limita lo sviluppo di abilità cognitive, relazionali e comportamentali che richiedono tempo, presenza e interazione umana autentica.
Tecnologia sì — ma con consapevolezza
Non si tratta di demonizzare la tecnologia. In contesti controllati e con un uso equilibrato, le app educative e le piattaforme online possono rappresentare una risorsa preziosa. Il problema emerge quando la digitalizzazione diventa la prima opzione — o peggio, l’unica — per affrontare bisogni educativi, sociali, affettivi.
Quando uno spot promuove l’idea che un genitore “salvi” la situazione con un’app, sta implicitamente veicolando un messaggio culturale: che il digitale sia la risposta rapida, efficiente, universalmente accessibile, e che possa sostituire — almeno in parte — le relazioni, il tempo, la presenza. Un modello che rischia di normalizzare un’infanzia mediata da schermi che, per quanto ben progettati, non riproducono l’empatia, la pazienza, la ricchezza del confronto umano.
Nel video l’editoriale con Fabio Duranti, Arianna Fioravanti e Giorgio Bianchi.










